Ho visto morire mio padre, mi ha guardato cosciente del passo che stava per compiere. Non c’era paura in quello sguardo, solo una lucidità tagliente.
Lì è rimasto il suo corpo, ma la sua anima, con i suoi valori, le sue contraddizioni, il suo silenzio, continua a vivere dentro di me.
La morte non è solo un evento, è un linguaggio muto che si insinua nelle pieghe della mente.
Quel giorno, la stanza d’ospedale era bianca, vuota, satura di un’angoscia che non aveva nome.
Mio padre mi fissava, e io sentivo che stava morendo per la malattia, ma c'era tutto il peso di ciò che non ci eravamo mai detti.
Da allora, mio padre vive nelle mie ossessioni, nei gesti che ripeto senza accorgermene, nelle frasi che pronuncio con la sua stessa inflessione. A volte mi guardo allo specchio e vedo i suoi occhi.
Porto dentro un fantasma che intende essere ascoltato.
A volte sogno che sia ancora lì, in quella stanza. Si siede sul letto, gli occhi vitrei, e mi sussurra: “Sai che non sei solo?”
Mi sveglio sudato, con il suo nome sulla lingua. La morte è un buco nero che risucchia i ricordi e li deforma.
Il dolore non lo riesco a scrivere. Ogni verso suona falso, ogni metafora è insufficiente.
La sua morte mi ha diviso in due: il prima e il dopo. Il prima era un figlio. Il dopo è un orfano. Non c’è ritorno in questa terra di nessuno.
Ciò che siamo è anche ciò che abbiamo perduto. Mio padre mi ha insegnato a resistere, anche quando non c’è più nulla per cui lottare. Forse il suo ultimo sguardo era proprio questo: un testamento di dignità.
Si è solo trasformato. Ora abita nei miei sogni, nelle mie paure, nelle scelte che faccio senza capire perché. La psiche non conosce confini tra vivi e morti.
Quel dolore era il mio attaccamento a lui.
La liberazione avvenne in un sogno: guardare quegli occhi senza chiedere nulla, senza pretendere risposte. Lasciare che la vita e la morte siano ciò che sono.
Lì è rimasto il suo corpo. Ma io non sono più prigioniero del suo sguardo.
(A. Battantier, Memorie di un amore, Mip Lab, GM, 5/25)
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