Quando sento dire che “con la forza del pensiero non si aggiusta un osso fratturato” (G.B. Cassano), sorrido.
È un’osservazione vera, ma parziale.
Sì, è chiaro, per ricongiungere il radio e l’ulna serve un chirurgo, un gesso, la competenza della medicina.
Ma ridurre l’essere umano a una macchina da riparare significa amputarlo del suo centro più vitale: il senso.
Ogni evento corporeo ha un riflesso psichico, e ogni dolore ha una funzione sociale, relazionale, direzionale.
Non curiamo solo un braccio: curiamo una persona.
Il dolore non è solo da sopportare, ma da orientare. Non è la sofferenza in sé che annienta, ma il non sapere perché stia accadendo, il non riuscire a inscriverla in un progetto.
Anche con un braccio rotto, si può trovare un contributo da dare, un senso da offrire.
Non si tratta di forzare l’ottimismo, ma di chiedersi: Che faccio ora? Quale direzione scelgo?
E quella direzione può nascere da una visione, da un’immagine. Non parlo di pensiero positivo -quello è uno slogan, una retorica- ma di immaginazione radicale.
Un braccio rotto non è solo un impedimento, ma un simbolo. Quale parte della mia vita si è “spezzata”? Cosa stavo portando o trattenendo che non posso più sostenere?
Il corpo diventa allora un testo, una narrazione che va letta. Non per guarire in fretta, ma per entrare nel mistero che il trauma dischiude.
Intanto, nella quotidianità, occorre mobilitare le risorse "sociali".
Una frattura fisica può diventare un catalizzatore relazionale.
Chi è avvolto da un senso di appartenenza, chi sente di essere ancora utile -nonostante tutto- riattiva in sé energie sorprendenti.
Il mio dolore isolato diventa depressione; il dolore condiviso, invece, è già cura. Nessuno guarisce da solo. Nemmeno da una frattura.
Troppe volte la società ha fretta che tu “guarisca”, cioè che tu ritorni utile.
Ma il corpo ferito è lento, e l’anima lo è ancora di più.
Occorre stare nella ferita, senza tentare subito la riparazione.
Lasciarsi attraversare dalla fragilità, abitarla, darle tempo. Solo così si trasforma davvero.
Solo così la frattura diventa passaggio e non interruzione.
E allo stesso tempo, è bene aiutare l’individuo a non collassare su di sé. C’è sempre un compito da scoprire.
Anche con un arto immobilizzato, posso pensare, progettare, comunicare.
La volontà non è una forza muscolare, ma una scelta interna.
È l’orientamento dell’energia psichica verso uno scopo.
Chi non trova uno scopo, cade nell’inerzia. E l’inerzia psichica è nemica della guarigione.
Lo scopo, però, può essere anche poetico. Non dev’essere sempre produttivo. Magari la ferita serve a risvegliare una parte dimenticata, una memoria antica, un desiderio sepolto.
È bella la Poesia, è bella l'Azione. La psicologia non è solo introspezione: è scelta, direzione, movimento. Anche dentro un limite fisico, si può camminare.
Ma solo se si accetta che la vera guarigione non è tornare come prima, ma diventare altro. La frattura non chiede ripristino, chiede metamorfosi.
La medicina cura l’osso. Ma è la psicologia -quella profonda, simbolica, relazionale- a prendersi cura dell’umano.
Là dove c’è un evento fisico, c’è sempre un compito psicologico. Ignorarlo significa aggiustare un braccio, ma lasciare spezzato l’essere intero.
E noi, della complessità dell’essere umano, vogliamo curare tutto: l’osso, l’anima e il senso.
(A. Battantier, Memorie di un adolescente, Memorie di un amore, Mip Lab, Antonietta, Ode all'amica risanata, 5/25)
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