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ESISTONO LE RAZZE?

ESISTONO LE RAZZE?


L’altro è, etimologicamente, il diverso. 

Il diverso da me. 

Ma anche il diverso da noi. 

Le ricadute sociali e politiche dell’interpretazione di questo concetto attraversano l’intera storia umana. 

E hanno avuto, ahimé troppo spesso, epiloghi sanguinosi e spesso sanguinari. 

A ben vedere, gli etnocidi che costellano la storia, anche recentissima, dell’uomo sono il frutto di una interpretazione, tragica, del concetto di altro inteso come «diverso da noi».

Oggi è proprio una scienza, la genetica, a risolvere, decisamente e definitivamente, il problema filosofico e (ci auguriamo) sociale e politico del concetto di altro inteso come «diverso da noi»: nell’ambito della specie Homo sapiens l’altro, semplicemente, non esiste.


Ci riferiamo, naturalmente, alla nozione di razza, utilizzata in biologia per classificare insiemi di individui di una medesima specie che presentano caratteristiche comuni e distintive. Tipiche sono le razze canine: ciascuno di noi è in grado di distinguere un cane di razza bassotta da un cane pastore tedesco. Questa nostra capacità di distinguere cani di razza diversa ha dei fondamenti biologici. Benché siano interfecondi e appartengano, quindi, alla medesima specie, un bassotto è geneticamente «altro» da un pastore tedesco. Nel senso che la variabilità genetica interna all’insieme dei cani bassotto è inferiore alla variabilità genetica media che esiste tra l’insieme dei bassotti e l’insieme dei pastori tedeschi.


Esistono razze umane? 

Esistono «altri diversi da noi» nell’ambito della comune specie umana? 

Un bianco è diverso da un nero? 

E se c’è una qualche differenza, dove ha origine?


Johann Friedrich Blumenbach, considerato il padre dell’antropologia fisica, nel 1775 propone una classificazione delle razze umane basata, almeno in parte, su osservazioni di tipo quantitativo, come lo studio della forma del cranio. 

Blumenbach sostiene che la specie umana è una sola, distinta in cinque diverse razze: 

la caucasica, formata dagli abitanti dell’Europa, dell’Africa settentrionale, del Medio Oriente e dell’India; 

la mongolica, formata dagli orientali ma anche da Finlandesi e Lapponi; la etiopica, formata dalle popolazioni nere dell’Africa sub-sahariana; l’americana, formata dagli indigeni di quel continente; 

e, infine, la malese, formata dagli abitanti degli arcipelaghi del sud-est asiatico e della parte dell’Oceania allora conosciuta. 


Blumenbach  afferma la sua convinzione che l’uomo è nato nel Caucaso, nell’area dove tuttora vivono le genti più belle. E che tutte le altre razze siano state il frutto di un processo evolutivo e, in qualche modo degenerativo, della razza bianca originaria.


L’idea della degenerazione non è nuova. Essa appartiene da tempo alla mitologia delle razze umane. 

E, in particolare, appartiene all’idea monogenetica: secondo cui, appunto, l’umanità ha una origine unica e comune. 

I fautori di questa idea sono convinti che Adamo ed Eva, progenitori dell’intera umanità, furono creati da Dio con la pelle bianca. 

E che anche Noè e i suoi figli fossero bianchi. 

Poiché la razza bianca è quella di più piacevole aspetto e di più alta cultura, va da sé che il processo di diversificazione delle razze è stato in realtà un processo di degenerazione. A nessuno viene in mente, neppure a Blumenbach, che la razza bianca appare di più piacevole aspetto e di più alta cultura a osservatori che sono bianchi e depositari della cultura dei bianchi.


Alla fine del ‘700 si inizia a misurare in modo sistematico le dimensioni dei crani e le forme delle teste, correlandole sia alle capacità intellettuali che morali. 

Alcuni anni dopo, il francese Lambert-Adolphe-Jacques Quételet inaugura la disciplina della biometria e l’anatomista svedese Anders Retzius introduce negli studi di biometria applicati all’uomo un parametro quantitativo semplice e preciso, l’«indice cefalico»: il rapporto tra larghezza e lunghezza del cranio. Il parametro ha un indubbio successo e resterà un fondamento dell’antropometria per un secolo e oltre. La sua fortuna inizierà a declinare solo dopo la seconda guerra mondiale, quando sarà dimostrato che l’indice ha una scarsa correlazione con l’ereditarietà e che è estremamente sensibile a effetti ambientali a breve termine.


Occorre attendere il 1859 e la pubblicazione dell’Origine delle specie perché Charles Darwin metta un primo punto fermo sul problema delle razze: le specie viventi, compresa quella umana, non sono entità statiche, ma si modificano nel tempo ed evolvono adattandosi ai cambiamenti dell’ambiente. Non ci sono specie o razze migliori in assoluto, ma solo specie e razze più o meno adatte a sopravvivere in un ambiente che cambia.


Un secondo e più diretto punto fermo Charles Darwin lo mette dodici anni dopo, nel 1871, quando pubblica L’origine dell’uomo. Darwin sostiene la completa interfertilità tra le razze umane, perché ciascuna «confluisce gradualmente nell’altra». 

L’uomo forma una sola e unica specie, perché quelle che vengono chiamate razze non sono abbastanza distinte da abitare una medesima regione senza fondersi. Anzi, queste presunte razze sono così simili le une alle altre, che non esistono due autori che abbiano ottenuto, cercando di classificarle in modo obiettivo, il medesimo risultato. Cosicché le differenze tra queste presunte razze, benché talvolta appaiano vistose, sono del tutto irrilevanti. Mentre, al contrario, vi è una grande uniformità nelle caratteristiche davvero importanti, comprese quelle mentali: malgrado le apparenti differenze che gli africani o gli indigeni d’Amazzonia mostrano rispetto agli europei, Darwin si dice colpito ogni volta che rivela persino dai tratti più piccoli del carattere «come le loro menti siano simili alle nostre».


Quello di Darwin è un autentico e autorevole manifesto anti razziale. Il primo contributo chiaro che il pensiero scientifico propone contro le discriminazioni tra le razze. Queste, sostiene Darwin, sostanzialmente non esistono.


Non è l’antropometria, ma la genetica a porre la parola fine al dibattito sulle razze. Lo studio della caratteristiche genetiche ha dimostrato che la specie umana è una sola, che ha avuto medesima origine in Africa, circa 200.000 anni fa, e che al suo interno non ci sono ragioni obiettive per individuare una tassonomia di profili genetici ben definiti. 

Per tre motivi, molto ben chiariti dagli studi sistematici dell’italiano Luigi Luca Cavalli-Sforza.


Se si considerano singoli caratteri, o meglio singoli geni, essi sono sempre presenti in quasi tutte le popolazioni umane, anche se con frequenza diversa. In pratica, per la frequenza dei singoli geni, tutte le popolazioni umane si sovrappongono. E nessun gene può essere utilizzato per distinguere una popolazione umana dall’altra.

C’è una grande variabilità genetica, tra gli uomini. Nessuno di noi porta i medesimi geni di un altro individuo. Tuttavia la gran parte di questa variabilità è anteriore alla formazione delle diverse popolazioni ed è probabilmente persino anteriore alla formazione della specie sapiens sapiens.

La variabilità genetica all’interno delle singole popolazioni, per esempio tra gli europei o tra gli italiani, è elevatissima. Mentre le differenze genetiche tra i tipi mediani delle diverse popolazioni, tra gli italiani e gli etiopi, per esempio, sono modeste e pressocché irrilevanti rispetto alla variabilità interna alle singole popolazioni. 

C’è maggiore differenza tra due italiani posti all’estremo di un profilo genetico, che non tra un italiano e un etiope posti al centro dei profili delle rispettive popolazioni. Le differenze tra le varie popolazioni della Terra sono continuamente annullate dalle migrazioni e dalla fusione tra individui che abitano le medesime regioni. Le differenze vistose che pure ravvisiamo tra le diverse popolazioni, per esempio il colore della pelle, sono marginali. Effetto di lungo periodo del clima e, probabilmente, della selezione sessuale.


Siamo ora in grado di rispondere a tutte le domande che ci siamo posti all’inizio.



Domanda: Esistono razze umane?


Risposta: No.



Domanda: Esistono «altri diversi da noi» nell’ambito della comune specie  umana?


Risposta: Ciascuno di noi è diverso da ogni altro, nessuno è «diverso da noi», qualsiasi sia il gruppo di umani che intendiamo con noi.



Domanda: Un bianco è diverso da un nero?


Risposta: No. La massima diversità tra i bianchi e la massima diversità tra i neri è di gran lunga maggiore di quella media tra un bianco e un nero.



Domanda: E se c’è una qualche differenza, dove ha origine?


Risposta: Le differenze che ravvisiamo sono o sono irrilevanti o sono una costruzione della nostra mente. L’«altro da noi» semplicemente non esiste.


(PIETRO GRECO, CENTRO STUDI DI CITTÀ DELLA SCIENZA, COPYRIGHT © 2021)


Pietro Greco (1955-2020), giornalista scientifico e scrittore, laureato in chimica, socio fondatore della Fondazione IDIS-Città della Scienza di Napoli e responsabile del Centro studi di Città della Scienza. È stato membro del consiglio scientifico dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (ISPRA).






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