BIANCANEVE, WOKE E CREATIVITÀ: LA RIVOLUZIONE DEVE INCANTARE E NON EDUCARE ALLA BANALITÀ DEL BENE CHE VINCE
Il "woke" non è un’ideologia imposta, ma una presa di coscienza necessaria, figlia di lotte legittime contro razzismo, sessismo e oppressione. Le battaglie che portiamo avanti sono giuste, urgenti, e chi le riduce a semplice "propaganda" lo fa per comodità o malafede.
Ma c’è un problema: il progressismo rischia di diventare un linguaggio sterile, ripetuto per inerzia più che per convinzione.
E quando la forma supera il contenuto, quando il messaggio si cristallizza in schemi prevedibili, perde la sua forza trasformativa.
Negli anni ’70, il femminismo era scandaloso, teatrale, poetico. Le donne scrivevano opere che rompevano gli schemi, mescolando rabbia e ironia, provocazione e profondità.
Oggi, invece, sembriamo intrappolati in un vicolo cieco di didascalismo: storie che inseguono la perfezione morale anziché la complessità umana, personaggi che incarnano ideali anziché contraddizioni.
Prendiamo Biancaneve. Il problema non è che si parli di consenso o autonomia femminile, ma che lo si faccia in modo così piatto da sembrare una lezione di educazione civica.
Perché Biancaneve non può essere un’eroina ambigua, combattuta tra desiderio e dovere?
Perché il principe deve essere solo un simbolo da smontare, e non un personaggio con luci e ombre?
Perché i nani vengono censurati invece che reinventati con audacia?
La cultura woke dovrebbe essere un laboratorio di immaginazione, non un ricettario di regole.
Il vero potere delle storie sta nella loro capacità di turbare, sorprendere, sedurre.
I Monty Python sfidavano il potere con un nonsense dissacrante.
Dave Chappelle fa a pezzi il razzismo ridendoci sopra, senza trasformare la sua arte in un pamphlet.
Persino Biancaneve, se avesse osato di più, avrebbe potuto essere un racconto potente, non un esercizio di politically correct.
Il rischio più grande è che il progressismo diventi un circolo autoreferenziale, dove ci si parla addosso invece di conquistare cuori e menti.
Se vogliamo cambiare la cultura, dobbiamo smettere di avere paura: paura di sbagliare, paura di offendere, paura di complicare il messaggio.
Le battaglie giuste vanno raccontate con la stessa audacia con cui le si combatte.
Non voglio personaggi impeccabili, voglio personaggi vivi.
Non voglio storie che mi insegnino come pensare, ma storie che mi costringano a sentire.
Perché è l’emozione, non la moralità, a cambiare il mondo.
(A. Battantier, Mip Lab, 2/25)
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