Mi guardo allo specchio. Vedo un uomo che, per molti, rappresenta il successo: vesto bene, vivo di classe, sono in carriera.
Ogni mattina mi preparo con cura, scegliendo una camicia di Valentino, lucidando le scarpe, annodando una cravatta di seta, il venerdì senza.
Non è solo una questione di apparenza, è un'esigenza, un ruolo che ho abbracciato e recito con dedizione.
Epperò, dietro questa maschera di perfezione, avverto un senso di vuoto, una superficialità che mi corrode da dentro.
Ho un incarico di responsabilità. Ogni giorno prendo decisioni che influenzano la vita di molte persone.
Passano gli anni ed io ho una casa bella, la macchina di lusso ma sportiva, un conto in banca interessante.
Ma quando mi guardo mi chiedo: chi sono?
Non ho la testa, mi sento senza una mia identità.
Dov'è il mio volto, quello rimane nascosto dietro strati di finzione.
Stati dell'io separati da un baratro di alienazione.
È come se fossi sparpagliato nei rivoli della finzione, ogni parte di me destinata a un ruolo diverso, un'apparenza da mantenere.
Il falso è quello che tutti vedono, è impeccabile. Ma il vero io, quello nascosto, è fragile, confuso, perso.
Quando mi fermo a riflettere, vedo la mia vita come una notte alla Upim, il mio grande magazzino dell’esistenza dove ogni cosa è in vendita, dove ogni momento è mercificato.
Sono in carriera, sì, ma a che prezzo?
Ho perso di vista chi sono, mi sono perso in un mare di aspettative e responsabilità che non sento più mie.
Vesto bene e tengo pure un sarto di fiducia, ma ogni vestito è solo un'altra barriera tra me e la mia vera essenza.
Mi sento senza testa, come se il mio cervello fosse un organo estraneo, incapace di darmi la direzione di cui ho bisogno.
Al suo posto funziona un potente calcolatrice che si sta surriscaldando.
Ogni passo che faccio sembra portarmi più lontano dal mio centro.
Le persone mi vedono come un modello di successo, un uomo che ha tutto.
Ma dentro di me c'è solo una profonda sensazione di vuoto, un'assenza che non riesco a colmare.
Mi sono perso in questo gioco delle apparenze, in questo mondo dove l'essere è stato sostituito dall'apparire.
E mi chiedo: può mai esserci una vera soddisfazione senza autenticità?
Può un uomo trovare pace quando vive diviso, separato da se stesso?
Forse è il momento di fermarmi, di guardare oltre il riflesso nel mio specchio e iniziare a cercare ciò che ho perso lungo il cammino.
Forse è il momento di abbracciare quell'altro che mi aspetta dentro me, con la sua umanissima incertezza e vulnerabilità, quello che ho sempre cercato di nascondere.
E mi addormento così.
(A. Battantier, Memorie di un lavoro, FI, 49 anni, Mip Lab, 2024)
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