Mi chiamo Satnam Singh.
Il mio nome è comune nel Punjab, ma qui in Italia sono solo un fantasma nero, uno schiavo senza diritti.
Sono uno di quei lavoratori che raccolgono frutta e verdura per più di 14 ore al giorno, senza permesso di soggiorno, senza ferie, senza malattia, senza tutele.
Mi è stata tolta anche la dignità, ridotto a una misera paga che mi lega a un ciclo di sfruttamento senza fine. Sono diventato un invisibile, uno dei tanti immigrati che vivono e lavorano nell'ombra.
Perché parlo al presente? Perché ora sono un fantasma vero.
L'altro giorno ho perso un braccio.
Ero lì, nella campagna, a raccogliere ortaggi sotto il sole cocente, quando un macchinario si è inceppato. L'ho visto avvicinarsi, la lama lucida che scintillava sotto il sole.
Ho sentito il dolore acuto, poi solo il vuoto.
Il mio braccio schiacciato, mozzato.
Ho urlato, ma nessuno è venuto ad aiutarmi.
Il padrone mi ha visto, ha visto il mio sangue che inondava il terreno, ma ha deciso che non valeva la pena chiamare i soccorsi.
Mi ha buttato davanti a casa mia come un sacco di spazzatura.
"Non servi più", dicevano i suoi occhi.
Ho trascorso ore di agonia, aspettando un aiuto che non è mai arrivato.
Il mio braccio mutilato è stato trasportato sopra una cassa di ortaggi, i cani cercavano di morderlo.
Io, buttato lì, a fissare il cielo, a pensare ai miei due figli; qui, senza documenti, non esisti. Sei costretto a morire in silenzio.
Avevo scelta?
Denunciare.
Mi hanno abbandonato con il braccio mozzato, lasciato a morire dissanguato.
La colpa è mia, diranno.
Non sono stato attento, dicono.
Ma la verità è che l'Italia non è un paese buono.
Qui non c'è rispetto, non c'è dignità per quelli come me.
Il caporalato è una piaga che tutti conoscono, ma nessuno vuole combattere.
È comodo così, dicono.
Gli immigrati sono troppi e rubano il lavoro, ma poi ci sfruttano, ci rendono schiavi invisibili che nessuno vuole vedere.
Ho lavorato in nero per anni, senza mai una giornata di riposo, senza mai una speranza.
Siamo sostituibili.
Quando uno di noi si ferisce, viene buttato via come un pezzo difettoso.
Il padrone trova subito un altro disperato pronto a prendere il nostro posto.
La tragedia è che nessuno si ferma a pensare alle nostre storie, alle nostre vite.
Cerchiamo storie positive, ma ce ne sono davvero?
La mia morte non sarà che un numero in una statistica che non interessa a nessuno, op a pochi, perché tutti vogliono pomodori a prezzo basso.
Mi chiamo Satnam Singh e ho perso tutto.
Ho lasciato due figli che cresceranno senza un padre.
Ma non è solo la mia storia che importa, ormai.
Importa la malvagità di un sistema che ci sfrutta, che ci uccide e ci dimentica.
L'Italia non è un paese buono.
È un paese senza senso morale, senza rispetto per la vita umana.
Il caporalato è solo una delle tante facce della doppia morale italiana.
Da un lato si dice di voler combattere lo sfruttamento, dall'altro si chiudono gli occhi di fronte alla realtà.
Gli immigrati sono invisibili, fantasmi che lavorano nell’ombra.
Non esistiamo, non siamo considerati.
Ma siamo qui, e moriamo ogni giorno sotto gli occhi di una società che preferisce non vedere.
La mia storia è finita, ma la vostra lotta deve continuare.
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Satnam Singh era un uomo come tanti altri, un immigrato che cercava solo di vivere una vita dignitosa.
La sua morte è una tragedia che deve far riflettere tutti noi.
È un richiamo alla necessità di cambiare un sistema che sfrutta e uccide, un grido di dolore che non può essere ignorato.
Satnam Singh è morto, ma la sua voce deve continuare a risuonare, per tutti i lavoratori sfruttati, per tutti gli invisibili.
(A. Battantier, Memorie di un lavoro, Mip Lab, 2024)
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