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LA STAZIONE

La stazione è il limbo tra l’essere figli e il diventare sé stessi. Partiamo con valigie che crediamo piene di ideali, e invece sono vuote. Le ambizioni si rivelano, talvolta, cartelli sbagliati. I volti amati -la madre sotto l’orologio fermo- restano piattaforme fisse, mentre noi saliamo su treni dai finestrini opachi.

Elaborare il lutto dell’adolescenza significa accettare di non sapere dove si va.
Significa riconoscere i rimpianti non come fallimenti, ma come biglietti già obliterati.
I sogni non muoiono, si trasformano in silenziosa dignità: il coraggio di viaggiare leggeri, con la malinconia come unica compagna di viaggio.
Perché nulla della nostra storia precedente si distrugge. Si trasforma nel movimento stesso del treno che, finalmente, parte.

***
La valigia era vuota. Asia lo sapeva perché l’aveva aperta e richiusa dieci volte, in piedi nel mezzo di quella stazione che non finiva mai. I binari si incrociavano sopra la sua testa, scale che portavano a gallerie che portavano ad altri binari. Uomini con cappotti pesanti, anche se faceva caldo, camminavano senza fretta lungo i marciapiedi infiniti. Nessuno correva. Nessuno sembrava sapesse dove andare.
La ragazza doveva prendere un treno. Gliel’avevano detto. Ma il tabellone era una poesia senza senso, numeri e nomi di città che non esistevano:
Partenza 11:45 per Memoria. Arrivo 14:00 da Rimpianto.
I treni arrivavano silenziosi, senza fischio, senza rumore di ruote. Si fermavano un attimo, sbarcavano persone con facce assonnate, e ripartivano.
Asia vide sua madre in lontananza, in piedi sotto un orologio che segnava sempre le cinque meno un quarto. La riconobbe dalla sciarpa azzurra.
La osservava, senza sorridere, senza chiamarla.
La ragazza alzò una mano, un gesto piccolo, ma sua madre non rispose. Sembrava aspettare un treno anche lei, o forse aspettava che sua figlia partisse. O che tornasse.
Un compagno di scuola, uno con cui non aveva mai parlato molto, le passò accanto. "Anche tu qui?" le chiese, come fosse la cosa più normale del mondo.
"Devo andare," sussurrò Asia, indicando la valigia vuota.
"Anch'io," disse lui. "Ma non ricordo dove abito."
Poi se ne andò, dissolvendosi nella folla che non era folla.
Asia guardò di nuovo sua madre.
Ora teneva in mano una mela.
Non la mangiava, la teneva solo sul palmo, come un'offerta.
Asia sentì un nodo in gola.
Forse doveva tornare da lei, dirle che la valigia era vuota, che aveva paura, che non sapeva quale treno prendere.
Che l'ambizione le sembrava una parola scritta su un cartello sbagliato.
Ma quando fece per muovere un passo, i suoi piedi erano pesanti, inchiodati alla pietra lucida del pavimento.
Un treno entrò in stazione, slittando senza suono sul binario di fronte a lei. I finestrini erano neri, opachi. Non riflettevano nulla.
Sapeva che doveva salire. Che forse la dignità stava proprio in quello: salire su un treno senza sapere dove porta, con una valigia vuota, perché è l'unico treno che c'è.
Un ultimo sguardo a sua madre. Un cenno del capo, quasi impercettibile. Non un addio. Un permesso.
Asia salì sul treno. La porta si chiuse con un sibilo di aria compressa. All'interno, non c'erano altri passeggeri. Si sedette su un sedile di plastica blu.
Fuori, il mondo di scale impossibili e binari che si intrecciavano cominciò a scivolare via. Lentamente.
Non sapeva se stava sognando. Ma non contava più. Il treno si muoveva. E quello, per ora, era tutto.
(A. Battantier, Memorie di un amore, Memorie di un adolescente, Mip Lab, 10/2025. Art by Stephen Stadif)

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