Un uomo cammina per la città. Da solo. Non del tutto.
Ogni volta che una macchina gialla passa, dentro di lui qualcuno grida: “Macchina gialla!”. A volte è la sua voce, nel silenzio dei suoi pensieri. Altre volte è la voce di suo figlio, che non c’è più da dieci anni.
Non importa come sia successo. Importa che da allora lui continua il gioco. Quello che facevano quando il bambino era piccolo. Camminavano e il primo che vedeva una macchina gialla vinceva. Il piccolo strillava, saltava. Ridevano.
Ora lui gioca da solo. Fa finta che il figlio sia lì. A volte lascia che sia il bambino a vedere per primo. Anzi, quasi sempre. Fa in modo che sia lui a vincere.
“Gialla!” pensa, come se fosse il ragazzo a dirlo. E sorride, tra sé.
La gente lo guarda a volte. Un uomo che fissa il vuoto con un mezzo sorriso. Loro non sanno. Loro vedono solo un uomo. Lui vede due persone.
Forse il lutto non è una cosa che si supera. È una presenza che si impara a portare. Come un gioco che non finisce mai. Come una macchina gialla che non smette di passare.
Alla fine della giornata, torna a casa. Suo figlio ha vinto di nuovo. Ha visto (di poco) più macchine gialle di lui.
Un padre ancora gioca con suo figlio. In un modo diverso. Per sempre.
Il senso della vita forse è tutto qui. Continuare il gioco, anche quando l’altro non può più rispondere. Farli vincere, sempre. Tenere vivo il loro turno.
Macchina gialla, diciamo noi. Ancora.
(A. Battantier, Memorie di un amore, Memorie di un bambino, Mip Lab, 10/25)
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