MIO ZIO E IL GIARDINO DELLE ILLUSIONI PERFETTE (Quella ricerca della perfezione non era un tratto caratteriale, era la sua prigione. Qual è il confine tra la ricerca della perfezione e il perfezionismo maniacale?)
L’odore della terra zuppa dopo la pioggia, misto all’aspro sentore della clorofilla appena recisa, annunciava le sue battaglie.
Zio Gennaro non coltivava un giardino; lo domava.
Per lui, quel quadrato di terra dietro casa non era un luogo di piacere, ma un manoscritto in continua riscrittura, un testo illeggibile che lui si ostinava a correggere con la maniacalità di un copista medievale.
Ricordo ogni suo gesto come un atto di fede in un dio assente (e infatti le maledizioni si sprecavano).
Gli aghi di pino, le foglie, in particolare, erano il suo nemico personale.
Non le vedeva come il naturale prodotto degli alberi, ma come una sfida esistenziale, un’offesa alla geometria dell’universo.
Le raccoglieva con un rastrello la cui dentatura doveva essere perfettamente allineata, in un movimento che era sempre uguale a se stesso, un andante metodico e disperato.
Il fruscio delle foglie ammucchiate era il suono della sua temporanea vittoria.
Le osservava, infine, bruciare in un falò controllatissimo, e per un istante, mentre le fiamme consumavano quel disordine, il suo volto si illuminava di una pace irreale.
Aveva riconquistato, per un attimo fuggente, il controllo sul caos del mondo.
Poi, immancabilmente, accadeva l’Evento.
A volte era un temporale, un diluvio cieco e violento che non solo scaraventava a terra nuovi rami e foglie, ma imbrattava di fango il vialetto di tufo che lui aveva setacciato per ore.
Altre volte era il vento, un maestrale beffardo che soffiava proprio la notte dopo che lui aveva finito, spargendo di nuovo il disordine come un bambino viziato che rovescia i giocattoli.
Una volta, fu addirittura uno stormo di uccelli migratori che, scegliendo il suo prato come luogo di sosta, lo ricoprirono di un guano bianco e derisorio.
Era allora che zio Gennaro, in piedi sulla porta di casa, le mani ancora sporche di terra, incrociate dietro la schiena, mormorava la sua litania contro il destino crudele (come quando perdeva la sua Roma che ascoltava alla radiolina).
Non era un’invettiva plateale, ma un brontolio sordo e introspettivo, un dialogo serrato con l’assurdità dell’esistenza.
"Ancora," sospirava. "Ancora non basta."
Lo diceva non al cielo, ma a se stesso, come se in quel "non basta" risiedesse la chiave di tutto.
Il suo non era un semplice disappunto; era lo smarrimento metafisico di un uomo che vedeva crollare, per la millesima volta, il castello di carte della sua razionalità ingegneristica.
Quella ricerca della perfezione non era un tratto caratteriale, era la sua prigione.
L’ho capito tardi, osservando la differenza tra il suo e gli altri giardini. Quello dei vicini era vivace, disordinato, pieno di giocattoli dimenticati dai bambini e di angoli lasciati incolti.
Ridevano, lì dentro.
Il giardino di zio Gennaro, anche nel suo momento di massimo splendore, emanava la bellezza glaciale di un cimitero.
L’erba era perfetta perché non calpestata, le aiuole impeccabili perché inavvicinabili.
La sua era un’estetica del non-vissuto.
Era la ricerca di un ideale platonico in un mondo che è, per sua stessa natura, divenuto e corruzione.
Il confine tra la ricerca della perfezione e il perfezionismo maniacale è sottile come la lama di un rasoio.
La prima è un anelito, un tendere verso qualcosa di alto. Il secondo è una gabbia di ossa e muscoli che si contraggono a ogni imperfezione.
Mio zio non amava il giardino; amava l’idea del giardino.
Non vedeva il verde, vedeva solo le foglie fuori posto.
Non sentiva il profumo dei fiori, ma solo l’odore della fatica.
La sua anima si è dannata non perché il mondo fosse imperfetto, ma perché lui non ha mai accettato di esserne parte, con tutte le sue splendide, necessarie, imperfette rugosità.
L’ultima volta che l’ho visto nel suo giardino, poche settimane prima che una malattia più grande e incontrollabile di qualsiasi temporale lo portasse via, aveva smesso di rastrellare.
Stava seduto su una panchina, a guardare le foglie che cadevano in un tranquillo disordine autunnale.
Forse, in quell’ultimo scorcio di vita, aveva intravisto l’ironia finale: che il senso non sta nel mettere in ordine, ma nel trovare una pace proprio nel disordine.
Che la vita perfetta non è un traguardo da raggiungere, ma il fluire stesso degli eventi, foglie comprese.
Mi sa che forse, in quel momento, per la prima volta, ha visto il suo giardino, perfetto proprio così, com’era.
(A. Battantier, Racconti, 5 racconti di zio Gennaro, 2025)
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