È un meccanismo sottile che abbraccia il bisogno di essere visti e ammirati come fosse una condizione imprescindibile per esistere.
Il legame tra vanità e amore per se stessi è complesso, spesso ambiguo, e lo scambio tra questi due poli è talvolta confuso, nascosto dietro il desiderio disperato di conferme.
La vanità, come molti altri tratti della personalità, è un sintomo di qualcosa di più profondo: la ricerca di un Sé mancante.
La domanda che pone Tiziana Alberti "quante mancanze potrebbe aver subito una persona così suscettibile alla vanità?", richiama inevitabilmente la questione dell'infanzia e del nostro primo incontro con lo sguardo dell'altro.
Nell'infanzia, il nostro Sé si struttura in gran parte in funzione dell'altro, che sia il genitore, il caregiver o chiunque ci sia stato accanto nei nostri primi anni.
È attraverso lo sguardo altrui che iniziamo a riconoscerci, a capire chi siamo, e a sentirci amati o amabili.
Se, però, quello sguardo primario — il primo specchio in cui ci riflettiamo — non ci restituisce una conferma di valore, o se la restituisce in modo incostante, distorto o condizionato, il bambino inizia a cercare continuamente quel riconoscimento perduto.
La vanità, allora, può essere vista come un tentativo disperato di catturare quel riflesso mancante, un modo per dire: "Guardami, dimmi che esisto, dimmi che valgo".
Il narcisismo patologico è l'espressione estrema di questa dinamica, dove l'individuo si trova intrappolato nella continua ricerca di conferme esterne, incapace di amarsi veramente per ciò che è, senza il bisogno dell'approvazione altrui.
Possiamo ricondurre questo processo a un bisogno inconscio di colmare quel vuoto lasciato da un amore non sufficientemente solido o autentico.
La teoria dell'attaccamento di Bowlby ci insegna quanto siano cruciali le prime relazioni per lo sviluppo dell'autostima e della capacità di auto-regolarsi emotivamente.
Se il bambino percepisce un'assenza, o una presenza altalenante, inizia a costruire meccanismi di difesa, tra i quali può emergere la vanità come una maschera protettiva.
L'individuo si costruisce un'immagine ideale, gonfiata, che spera venga confermata dal mondo esterno, come a voler placare quel senso di fragilità e insicurezza.
Ciò che si definisce "un tentativo di amare se stessi" è quindi, in realtà, un surrogato dell'amore.
È una compensazione, una risposta all'angoscia di non essere stati visti e amati abbastanza nella fase della vita in cui il riconoscimento è più essenziale per la costruzione di un sé sano.
Ma questa compensazione è fragile, perché non si basa su un autentico amore per se stessi, bensì sull'immagine che si vuole proiettare e sulla risposta che questa immagine riceve.
Il bisogno di conferme diventa così uno schema reiterato, in cui l'essere stesso viene sacrificato sull'altare dell'apparire.
La vanità, in questo senso, è un tradimento del Sé autentico, perché pone l'attenzione sul guscio, sull'involucro, invece che sulla sostanza.
Jacques Lacan ha esplorato il concetto di “specchio” e di come la nostra identità si formi in relazione a come ci vedono gli altri.
Nel suo "stadio dello specchio", descrive come il bambino, vedendosi riflesso, sviluppa un senso di Sé che è inevitabilmente alienato, perché basato sull'immagine che riceve dall’esterno.
Da adulti, se non siamo riusciti a integrare questa immagine con una percezione interna e autentica di noi stessi, continuiamo a cercare negli altri quella conferma che non riusciamo a darci da soli.
La vanità diventa, dunque, una trappola che imprigiona l’individuo in una continua oscillazione tra l’elevazione e la caduta, tra l’illusione di essere ammirati e la paura di essere invisibili.
Dietro la vanità, quindi, non c’è amore per se stessi, ma un tentativo maldestro di riempire un vuoto.
È il bisogno di essere amati, non per ciò che si è, ma per ciò che si spera di apparire.
E questo genera una tensione dolorosa: da un lato, il Sé autentico soffoca, nascosto, perché sente che non è abbastanza; dall’altro, la maschera della vanità richiede energia continua, alimentata dalla necessità di conferme, di sguardi, di applausi.
Questa tensione ha conseguenze devastanti, non solo per chi la vive ma anche per chi le sta intorno.
Chi è intrappolato in questo gioco narcisistico non riesce a stabilire relazioni autentiche, poiché tutto si riduce a uno scambio superficiale di riconoscimenti.
Non c’è spazio per la vulnerabilità, per l’imperfezione, per l’amore vero, che è sempre anche accettazione dei limiti e delle fragilità.
L’amore richiede una nudità emotiva che la vanità non può tollerare, poiché si basa sull’esibizione di una perfezione inesistente.
Ecco perché la vanità, lungi dall’essere una forma di amore per se stessi, è piuttosto un segnale di mancanza d’amore, una distanza tra l’essere e l’apparire che diventa sempre più grande quanto più si cerca di colmarla con l’approvazione altrui.
È come un vaso senza fondo: per quanto si cerchi di riempirlo, non sarà mai pieno, perché ciò che manca non è l’ammirazione degli altri, ma la capacità di accettarsi, di amare il proprio Sé autentico, con tutte le sue imperfezioni.
In questo, possiamo vedere il dramma umano: l’incapacità di molti di accedere a un amore profondo per se stessi, spostando invece l’attenzione su quello specchio esterno, su un’immagine che, per quanto lucidata e abbellita, rimane sempre distante da ciò che realmente siamo.
La vera sfida non è mai quella di essere ammirati, ma di riconoscersi e accettarsi, di trovare la pace nell’essere senza dover continuamente dimostrare di valere qualcosa agli occhi degli altri.
In questo equilibrio, tra l'amore per se stessi e l'apertura all'amore degli altri, possiamo provare a liberarci dal giogo della vanità e scoprire una forma di amore che nutre anziché svuotare.
(A. Battantier, Mip Lab 9/24, L'amore e la vanità, parte seconda: La ricerca di un Sé mancante)
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