"Ogni vita non vissuta accumula rancore verso noi, e dentro noi. La vita perduta ci si rivolterà contro." (C. G. Jung)
L’essenza dell’essere umano, nel suo anelito verso la realizzazione personale, è radicata nella tensione tra il desiderio e la realtà, tra il sogno e ciò che siamo disposti a sacrificare per raggiungerlo.
La vita non vissuta è quella che abbiamo rinunciato a vivere: le passioni che non abbiamo coltivato, i rischi che non abbiamo avuto il coraggio di prendere, i percorsi che abbiamo scartato per paura dell’ignoto.
Il rancore non è solo una forma di sofferenza psicologica, ma un veleno che si accumula gradualmente, minando il nostro equilibrio interiore.
Ogni volta che abbandoniamo un sogno o un'aspirazione per conformarci alle aspettative altrui, facciamo un passo indietro rispetto al nostro nucleo più autentico, allontanandoci dal nostro “centro di gravità permanente”.
Questo ci porta a sperimentare frustrazione, rimorso e quel senso di colpa che ci ricorda che abbiamo tradito noi stessi.
La vita (mi sembra chiaro) non è un cammino lineare ma un territorio storto, accidentato, pieno di biforcazioni, smarrimenti e ritorni.
Forse, la ricerca di un senso non è altro che un continuo perdersi, sperimentare, cadere e risollevarsi.
Non c’è una sola strada, non c’è una mappa perfetta che ci conduca alla meta.
E spesso la paura di perdersi, di non riuscire a "trovare" la nostra strada, ci immobilizza, rendendoci incapaci di agire.
Ma è proprio in quell’andare alla deriva che, a volte, scopriamo una direzione più autentica, una parte di noi che non sapevamo esistesse.
Anzi , alle volte, è solo nel perdersi, nelle pieghe più oscure dell’esistenza, che possiamo provare a ritrovarci.
Le frustrazioni e i rimpianti derivano dalla nostra incapacità di vivere pienamente il presente, di ascoltare il richiamo delle nostre passioni più profonde.
Il nostro talento, il nostro potenziale, rimane spesso sepolto sotto il peso delle aspettative esterne e delle autocensure che ci imponiamo per evitare una stravagante idea di fallimento.
Ma, paradossalmente, è proprio la paura di fallire che ci spinge verso l’inazione, condannandoci a una vita di rimpianti e rimorsi.
Un ciclo vizioso in cui l’insoddisfazione cresce e la nostra esistenza diventa un campo di battaglia tra ciò che desideriamo essere e ciò che effettivamente diventiamo.
Eppure, come ci ricorda l’Oste della coscienza di Thomas Bergen, prima o poi arriva il momento di fare i conti.
Il conto può essere salato, doloroso, un richiamo feroce a ciò che abbiamo sacrificato nel nome della sicurezza, del conformismo o della paura.
Ma la verità è che il costo di non vivere appieno, di non rischiare, è infinitamente più alto.
Il vero fallimento non è nel provare e non riuscire, ma nel non provare affatto.
Ci vuole coraggio per seguire il proprio sentiero, per rischiare di perdersi, per affrontare l’ignoto.
Epperò, è solo nel farlo che possiamo realmente esprimere il nostro potenziale, dare forma ai nostri desideri e alle nostre aspirazioni.
Chi ha detto che sarebbe stato facile? Ma neppure impossibile.
Il viaggio non è mai privo di ostacoli, di cadute o di errori.
È attraverso queste esperienze che cresciamo, che ci avviciniamo sempre più al nostro fulcro, a quel punto d’equilibrio che, sebbene sempre mobile, ci dà la sensazione di vivere allineati, in sintonia con il nostro essere più profondo.
Il peso dell’essere diventa più leggero quando scegliamo di seguire la nostra passione, quando abbracciamo l’incertezza della vita e ci permettiamo di vagare, sapendo che ogni deviazione, ogni caduta, è parte di quel processo di scoperta di sé.
L’anima umana è un campo di battaglia, un luogo di contraddizioni, di desideri inespressi, di sogni che chiedono di essere vissuti.
E alla fine, forse, ciò che conta, non è trovare un senso alla vita, ma vivere ogni giorno con l’intensità di chi sa che la vera perdita è quella di non aver mai tentato.
(A. Battantier, Mip Lab, 9/2016)
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