Sotto la pioggia fioca si sentivano i passi sordi di due vecchie scarpe che affondavano nei ciottoli umidi del porto di Civitavecchia.
Le ombre delle barche si allungavano sulle loro figure, sottili e fragili.
Lui, con la schiena curva e le mani infossate nelle tasche, fissava il mare, tentando di trovare nelle onde qualche ricordo che potesse spiegargli il perché di quel ritorno.
Lei, di fianco, camminava più leggera, come se già sapesse tutto, ma non volesse dirlo.
Era strano per lui: come era possibile che dopo cinquant'anni di vita insieme, ancora ci fosse qualcosa che gli sfuggiva di quella donna?
"Cristo, non serve capire. Basta essere lì, accanto a lei, e tenere duro."
Così lui si limitava a seguirla, zoppicando leggermente, il sapore dolce amaro della liquirizia ancora in bocca.
Poi sgranò gli occhi d'improvviso, il suo solito tic, come un corto circuito allorquando i pensieri discordi si scontravano nel suo cervello.
Lei non disse nulla, ma lui sapeva che aveva notato quel gesto. Aveva sempre notato tutto, fin dai primi anni.
Lei, l’inossidabile osservatrice, che vedeva tutto senza fare troppe domande.
Civitavecchia non era Parigi. Non aveva la raffinatezza di Vienna o della loro amata Ljubljana epperò, lì, tra le navi arrugginite e il vento salmastro, c’era qualcosa.
Il peso dell’essere, l’eterno ritorno, l’ironia delle coincidenze. Proprio lì, decenni prima, il loro primo bacio.
Il porto non aveva mai avuto niente di poetico, ma quel giorno, sotto la pioggia e con l’odore del diesel nell’aria, era sembrato l’unico posto giusto.
E ora erano di nuovo lì. Era un ritorno pesante, ma necessario, come se la vita li avesse obbligati a chiudere un cerchio.
Lei si fermò, finalmente, proprio sotto lo stesso lampione arrugginito di allora (era uno simile, ma che importa?).
Lo guardò, con un sorriso, come a dire: "Ti ricordi? Anche se non lo vuoi, ti ricordi."
Ci sarebbe da raccontare il silenzio tra di loro, il porto era diventato una scena del crimine: il passato, con tutti i suoi indizi e tracce, ancora visibile a chi sapeva cercare.
Lui sapeva. Anche se non lo ammetteva, lo sapeva.
E mentre cercava qualcosa da dire, lei si infilò una mano in tasca e tirò fuori una piccola ancora d'argento. L’aveva comprata da un pakistano orafo suo amico.
Era il simbolo di ciò che li aveva tenuti ancorati l’uno all’altra, in mezzo alle tempeste della vita, alle incomprensioni, ai tradimenti, ai silenzi e alle perdite.
"Per te," disse, semplice, con quella voce che negli anni si era arrochita ma non aveva mai perso dolcezza.
Lui si grattò la barba, guardandola, senza parole. Poi allungò la mano nella sua giacca e tirò fuori, con un mezzo sorriso, un’altra ancora, di ferro stavolta, un po' più grossolana, ma robusta. "Anch'io," disse.
In quell'istante non c'erano più maschere. Le ancore erano il simbolo della pesantezza e della leggerezza dell'amore: il peso di restare, la leggerezza di sapere di non essere mai stati davvero liberi.
Ma era quel peso che li aveva fatti sopravvivere, anche quello dei ricordi.
Ci sarebbe da ridere se ora ci scappasse un bacio. E non uno qualsiasi. Un bacio che sapeva di vita, di lotta, di lacrime e sudore e di mattine passate a odiarsi e notti passatile a ricucire tutto.
Lei lo guardava con quegli occhi che sembravano dire: "Dopo tutto, siamo ancora qui. Siamo sopravvissuti."
Lui si avvicinò, la prese per le spalle, le labbra che si trovavano lentamente, come se non ci fosse stata altra strada. Era un bacio profondo, denso, eppure così semplice. Un bacio che sapeva di mare, di vecchie promesse mantenute, di giorni passati a fare i conti con ciò che erano diventati.
"E cosa succederà dopo questo bacio?" disse lei, con la testa appoggiata alla sua.
"Non ne ho la minima idea," rispose lui. E forse, per la prima volta in tanti anni, era sincero.
Restarono lì, sotto la pioggia, ancorati l’uno all’altra, senza sapere cosa li aspettasse. Ma, dopo tutto, sapevano che non era più così importante.
(A. Battantier, Memorie di un amore, Mip Lab 9/24)
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