“Gli animali non possono parlare, ma come possiamo io e te non parlare per loro e astenerci dal rappresentarli? Ascoltiamo, noi tutti, il loro silenzioso pianto di agonia e aiutiamo quel pianto ad essere ascoltato nel mondo” (Rukmini Devi Arundale)
Mi chiamo Gian Maria e ho nove anni. Vivo in una casa che dà sul bosco.
Le persone dicono che ho i capelli troppo lunghi per essere un maschio. Io rido perché non capiscono: i capelli non fanno una persona.
Avevo tre anni e wuel giorno, alla mensa dell’asilo, mi hanno dato una polpetta. Non sapevo che cosa ci fosse dentro, ma sentivo un rumore nella testa, come il grido di un animale. Mi è sembrato un pianto lontano, uno di quelli che si nascondono sotto la pelle e si mischiano al sangue.
Ho smesso di mangiare carne quel giorno, anche se la maestra mi ha detto che i bambini devono mangiare tutto, che “è normale e che sennò sono storto”.
Ma io non voglio essere normale se normale è mangiare animali morti.
Il bosco è la mia casa.
Ci sono le foglie, che scricchiolano sotto i piedi.
Ci sono gli alberi, che mi parlano senza usare parole.
E poi ci sono i cinghiali.
Le persone grandi dicono che sono cattivi e pericolosi, bestie feroci.
Ma io lo so che non è così.
La mamma cinghiale, l’ho incontrata una volta, mi ha guardato dritto negli occhi, come se mi stesse dicendo: "Tu sai".
E io sapevo.
Non ha fatto nulla, non mi ha caricato come dicono gli adulti.
Io sono rimasto lì, fermo, e lei pure, e ci siamo guardati.
Era come se mi stesse dando un compito.
Ogni volta che sento uno sparo nel bosco, corro.
Ho una trombetta, quella che mi ha regalato nonna Tizia.
Suono così forte che il cacciatore si blocca, confuso.
E nel frattempo i cinghiali scappano, liberi come dovrebbero sempre essere.
Mi piace pensare che li sto salvando, uno alla volta.
E quando il cacciatore si volta verso di me, pronto a urlarmi contro, mi fissa sorpreso.
Forse perché non ha mai visto un bambino fermo lì, con i capelli lunghi e una trombetta al collo, come un soldato di un esercito che non vuole fare la guerra.
A scuola mi prendono in giro. Dicono che sono strano perché non mangio carne, che sono una femmina perché ho i capelli lunghi. Ma io so che le parole non contano.
Contano i gesti, e i miei gesti sono sempre dalla parte dei miei amici, gli animali del bosco.
Loro non mi giudicano.
Non mi chiedono perché non faccio come tutti gli altri.
Non mi dicono che devo cambiare.
Un giorno ho parlato con i miei compagni di classe.
Gli ho raccontato dei cinghiali, di come i cacciatori li inseguono per divertimento, per quella cosa che chiamano “sport”.
Gli ho detto che anche loro possono fare qualcosa, che non devono essere come gli adulti che mangiano e distruggono senza pensare.
Qualcuno mi ha ascoltato. Hanno chiesto perché mangiamo gli animali se possiamo mangiare altro.
E per la prima volta, ho visto nelle loro facce qualcosa che non era solo la solita voglia di scherzare: era curiosità, era una domanda vera.
I miei genitori mi capiscono, o almeno ci provano.
Loro sono diversi dagli altri grandi.
Non mi dicono che sbaglio, anche se a volte mi guardano come se fossi una specie di mistero che cammina.
Ma gli altri genitori, quelli degli altri bambini, non vogliono sentire parlare di queste cose.
Mi dicono che sono solo un bambino, che non posso capire davvero, che non dovrei pensare a cose così complicate.
Ma io lo so che stanno sbagliando.
Perché non è complicato, è semplice: gli animali non sono cibo, non sono oggetti da prendere e usare.
Ogni volta che vedo un cinghiale, o un cervo, o un pesce o un uccello che vola alto nel cielo, mi ricordo di quanto sia sbagliato il mondo degli adulti.
Pensano che tutto sia loro, che il bosco, il mare, il cielo siano solo pezzi di roba da possedere.
E invece, ogni animale, ogni pianta, ogni filo d’erba è libero.
Come me, quando corro nei campi con i miei capelli al vento, la mia trombetta stretta in mano, pronto a suonare ancora se serve. Pronto a difendere il mio bosco, i miei amici.
Io credo che possiamo cambiare le cose.
Credo che noi bambini possiamo fare la differenza, perché non siamo ancora stati corrotti da quelle idee di possesso e dominio.
Non ci siamo ancora convinti che il mondo debba essere piegato alla nostra volontà.
Noi sappiamo che possiamo convivere con gli animali, che non abbiamo bisogno di distruggerli per sentirci forti.
E se anche oggi sono solo un bambino con una trombetta, un giorno sarò qualcosa di più.
Sarò una voce che si alza sopra il rumore dei fucili e delle gabbie, sopra i discorsi vuoti degli adulti.
Sarò il difensore dei cinghiali e di tutti gli animali che non possono difendersi da soli.
E magari, un giorno, anche gli altri bambini capiranno.
E insieme, cambieremo il mondo.
Perché questo è il mio compito.
Non lo so come, ma lo so. E finché ci saranno boschi e cinghiali da difendere, io sarò lì.
(A. Battantier, Gian Maria, Memorie di un amore, Memorie di un animale, Mip Lab, Perugia, 9/24. Art by Stephen Stadif)
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