Pimpa Pollo era una cagna con l’animo di un’artista, e io non lo capii subito.
Ci misi del tempo, forse anche troppo, per realizzare che la sua insistenza nel nascondersi non era solo un gioco, ma un vero e proprio scambio d'amore.
L’autunno era la sua stagione preferita, il momento in cui diventava un'altra, come se quel manto di foglie dorate la richiamasse a qualcosa di ancestrale, di intimo.
Aveva un approccio sublime alla preparazione: non le bastava trovarsi un mucchio di foglie e sprofondarci dentro, no, doveva costruire, pezzo per pezzo, il suo rifugio perfetto.
Dopo che le prime foglie iniziavano a cadere, Pimpa usciva nel giardino della campagna e cominciava a spostarle con il muso, con una pazienza che mi sorprendeva ogni volta.
Non si stancava mai, trascinava una foglia dopo l’altra, facendosi strada con piccoli colpi di zampa, fino a creare un piccolo monte, una specie di tana dorata.
Se mi avvicinavo per vedere come procedeva, mi lanciava uno sguardo di avvertimento, come se volesse dirmi:
"Non è ancora il momento".
E io me ne stavo lì, a osservarla da lontano, incerto se intromettermi o lasciarle la sua concentrazione.
Poi veniva il momento più magico. Quando il suo nascondiglio era pronto, Pimpa si metteva a scrutare l’ambiente, come se volesse assicurarsi che nessuno la stesse osservando (anche se in realtà desiderava esattamente il contrario).
Allora si tuffava, con una delicatezza incredibile per una cagna della sua taglia (un incrocio tra un husky e un maremmano).
La sua intera figura spariva sotto quel mare di foglie, lasciando fuori solo il naso, umido e vibrante, circondato da un piccolo bordo di muso bianco.
Ed era proprio questo il suo capolavoro: non si nascondeva del tutto, no, lasciava un indizio, come una firma, quasi volesse farsi trovare, ma alle sue condizioni.
Ricordo il primo autunno che trascorremmo insieme. Lei era ancora giovane, e io non sapevo bene come comportarmi da padre. Era una sensazione nuova per me, con quella nuova responsabilità per me abituato a giocare con il tempo.
Pimpa, con la sua sfrontatezza e il suo bisogno di attenzione, era diventata la mia prima figlia, quella che mi insegnò il valore di un’attenzione continua, di un amore che non conosceva interruzioni.
Non era solo una questione di nutrirla o di portarla fuori, ma di esserci. Di riconoscerla nelle sue stranezze, di rispettare i suoi piccoli riti.
Quella prima volta che la vidi scomparire nel mucchio di foglie, rimasi perplesso. Pensai fosse solo un gioco strano, uno dei tanti. Ma quando la chiamai e non si mosse, mi avvicinai.
Il suo muso era lì, immobile, i baffi appena mossi dal vento.
E poi, di colpo, un ululato, acuto e breve.
Stava abbaiando per essere trovata. Allora mi fermai, compresi.
Non voleva uscire da lì finché non l'avessi scoperta davvero, finché non le avessi dedicato tutta la mia attenzione.
Per lei non contava solo essere nascosta, ma il momento in cui il gioco finiva, quel preciso istante in cui io, come un genitore attento, avrei dovuto dire:
“Ti vedo, Pimpa.”
E così restai lì, per qualche minuto, a fingere di cercarla mentre il suo muso vibrava per l’eccitazione.
Finalmente mi avvicinai, con il tono di chi aveva risolto un mistero, e lei uscì da quel cumulo di foglie con l’aria di chi aveva vinto.
Quel giorno mi insegnò qualcosa che non ho più dimenticato: non era importante solo la scoperta, ma il processo, quel tempo che trascorrevamo insieme in quel gioco.
Era un modo tutto suo di chiedere affetto, di farmi capire che per lei esistevo solo se partecipavo.
Pimpa Pollo diventò così la mia insegnante di paternità.
Con il passare degli anni, capii che il suo bisogno di nascondersi non era diverso dai miei tentativi di trovare il mio posto nel mondo.
Voleva sentirsi sicura, ma allo stesso tempo riconosciuta, come ogni essere vivente senziente con un cuore che batte.
Quando la guardavo scavare tra le foglie, rivedevo me stesso, che cercavo di costruire un’identità, una casa, qualcosa di cui essere fiero.
L’autunno, ogni anno, mi riportava quei pomeriggi di foglie e silenzi, di ululati improvvisi e corse gioiose.
Pimpa, con il suo muso puntato verso di me, aspettava solo che io facessi la mossa giusta.
E ogni volta, riscoprivo il piacere di accoglierla, di dirle
“Ti ho trovata”,
mentre lei scattava fuori dal nascondiglio con la leggerezza di un’anima libera.
C’era una saggezza in quel suo gioco che solo ora riesco a comprendere pienamente.
Pimpa non voleva solo nascondersi, voleva che il mondo, per un momento, rallentasse.
Che io la vedessi davvero, con gli occhi e con il cuore.
E io, in fondo, ho imparato da lei più di quanto abbia mai insegnato.
(A. Battantier, Memorie di un amore, Memorie di un animale, 2016)
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