Perché serve un disastro per far sì che qualcosa cambi?
L'uomo vive in una rete di illusioni. Ogni giorno si rifugia nel conosciuto, nel familiare. La sicurezza di ciò che è stato e ciò che è attualmente è come una droghetta che lo intorpidisce, lo culla in una falsa pace.
E in questa prigione costruisce le sue relazioni, i suoi amori, i suoi scopi.
Cambiare in modo radicale significherebbe mettere in discussione tutto questo.
E chi, se non spinto dal dolore, sarebbe disposto a farlo?
È come quando l'amore si trasforma in una prigione e non ci si rende conto di essere prigionieri finché la cella non si sgretola intorno a te. Ci si abitua alle crepe, agli scricchiolii, si ignora il crollo imminente, sperando che il giorno seguente porti con sé la riparazione. Ma l’edificio cade, e solo allora si comprende che la casa in cui si viveva era già distrutta molto prima.
Le crepe dell'esistenza non sono visibili all'occhio comune. Il pensiero, con il suo incessante ronzio, copre i rumori di allarme. La mente, così impegnata a proteggere sé stessa, non riconosce il pericolo finché esso non è travolgente. E così, è il disastro, l'evento traumatico, a rompere l'illusione, a scuotere le fondamenta stesse del nostro essere. È solo quando tutto ciò che pensiamo di sapere viene spazzato via che l'umanità, singolarmente e collettivamente, ha l'opportunità di ricostruire su basi nuove.
Ma non basta la comunicazione? Non potremmo parlare, spiegare, capire prima che la catastrofe ci investa?
Le parole non sono mai sufficienti quando l'ego è intrappolato in un ciclo di condizionamenti. La mente umana si difende, edifica mura di razionalizzazioni. Non ascolta realmente finché non è costretta a farlo.
E cosa può forzarla a questo ascolto se non il dolore, la perdita, la crisi?
È in quel momento, quando ogni difesa crolla, che si apre lo spazio per una nuova comprensione.
È il disastro, o meglio, l'impatto del disastro, che funziona come una bomba psicologica. Distrugge il vecchio per creare il nuovo.
È per questo che l'amore, a volte, deve ferire prima di guarire? Non si cresce forse solo attraverso il dolore? Forse è questo il senso più profondo dell'amore: non la mera passione, non il piacere condiviso, ma il risveglio attraverso la sofferenza. Solo quando l’amore ci delude, ci tradisce, ci scuote, capiamo chi siamo realmente.
L'amore non è sofferenza in sé, ma spesso è la sofferenza che ci costringe a vedere l'amore per quello che è. Quando tutto va bene, non cerchiamo di capire. Viviamo nell'abitudine, nel possesso, nel desiderio di stabilità.
Ma l'amore, quello vero, è rivoluzionario. Non può essere posseduto, non può essere incatenato. E quando cerchiamo di farlo, l'amore si trasforma in una prigione. Ed è qui che arriva il disastro: per liberarci da questa illusione, per farci comprendere che l'amore è uno stato di essere, non un contratto sociale.
Sì, alle volte serve essere feriti, spezzati, per poter finalmente aprire gli occhi.
Come se la tragedia, nella sua brutalità, fosse l’unico modo per risvegliare ciò che è rimasto assopito per troppo tempo.
Ma quindi, siamo destinati ad attendere il disastro? A vivere nella passività finché la vita non ci colpisce abbastanza forte da farci cambiare? Non deve necessariamente essere così. L'uomo può scegliere di svegliarsi prima, di vedere l'illusione senza dover attendere il colpo fatale. Ma per farlo, deve imparare a vedere oltre le sue difese, oltre i suoi pensieri condizionati. Deve affrontare la sua paura del cambiamento prima che la vita lo costringa a farlo. Solo allora il disastro non sarà necessario. Ma quanto pochi sono quelli che accettano questa sfida senza essere costretti? E quindi, per la maggior parte di noi, è proprio il disastro, la perdita, il trauma, a farci muovere verso una nuova consapevolezza.
Forse, allora, il senso della vita non è evitare la tragedia, ma imparare a rinascere dalle sue ceneri. È attraverso l'inevitabile fallimento che scopriamo il significato dell'amore, della verità e della libertà.
(A. Battantier, Memorie di un amore, Mip Lab RM, 9/24)
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