Plutarco non scrive di cibo, ma di fantasmi, di ombre che si annidano nei nostri gesti quotidiani, nei coltelli che sminuzzano e nei fuochi che arrostiscono.
La carne è una presenza che parla di sangue versato e occhi spenti, e l'orrore non è solo nelle viscere squarciate ma nella normalità con cui accettiamo quel massacro.
Vedo in Plutarco il riflesso di una tragedia universale: l’uomo che si erge a giudice e carnefice, incapace di guardare negli occhi il proprio prigioniero.
L’empatia, quella parola così abusata, si spezza di fronte al tavolo imbandito, dove ogni animale, essere vivente senziente con un cuore che batte, è ridotto a cosa.
Plutarco ci sfida a chiedere: Perché?
Non un perché scientifico, non una giustificazione evolutiva, ma un perché etico, profondamente umano.
Se puoi vivere senza uccidere, perché non lo fai?
È una domanda che io spesso lancio come un sasso nello stagno della nostra coscienza.
Plutarco non indulge in illusioni.
Il mangiar carne è un atto brutale, senza poesia.
È nella sua essenzialità che si rivela, spogliato di miti e razionalizzazioni.
Gli uomini si comportano come se gli animali fossero nati per servire, eppure basterebbe osservare il loro sguardo per scoprire una vita altrettanto complessa, un universo che non siamo mai stati capaci di esplorare, troppo occupati a dominarlo.
Plutarco intuisce la continuità della vita, il respiro che unisce tutte le creature.
La poesia del non-mangiare-carne sta nella sua capacità di vedere il legame, di percepire che ogni essere è un nodo in una rete infinita.
Non è solo un problema di etica ma di immaginazione. L’immaginazione di pensare che un maiale, una mucca, un pesce possano desiderare, temere, amare.
Mangiare carne non è solo un atto fisico ma un atto psicologico, un rituale che ci lega al nostro lato più oscuro. Penso al "sacrificio", di come gli uomini abbiano sempre cercato di sublimare la violenza con riti e miti.
Ma oggi il rito è morto, e rimane solo il crudele atto del consumo.
La vera domanda è: quale parte della nostra anima stiamo divorando ogni volta che affondiamo i denti in un pezzo di carne?
Non si tratta di moralità, si tratta di vedere ciò che è.
L’atto del mangiar carne non è separato dalla violenza, dalla paura, dall’indifferenza.
Per cambiare, non serve una regola o una filosofia: serve osservare.
Osservare il gesto, la sofferenza, il ciclo infinito di abuso.
E nel vedere con chiarezza, la trasformazione accade.
Plutarco non è un moralista ma invita a guardare senza veli il nostro essere.
Quando finalmente osserviamo, il bisogno di uccidere svanisce, e ciò che rimane è compassione, e un diverso modo di vivere.
(A. Battantier, Memorie di un animale, Memorie di un amore, Mip Lab, 1/25)
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