La mia scuola è una gabbia, non quelle metafore tipo sbarre invisibili ma proprio una gabbia vera, fatta di muri di cemento scrostato e porte che sbattono forte come per ricordarti che sei dentro, che non puoi scappare.
Qui dentro, i bulli sono i padroni. Li riconosci subito: sono quelli con le risate che ti perforano il cervello, quelli con la camminata larga padroni del mondo, tutto qui è solo per loro. Ma se credete che il problema siano solo loro, vi sbagliate di grosso.
Mi avevano spinto contro l’armadietto. Uno aveva preso il quaderno di matematica e ci aveva sputato sopra. Gli altri ridevano, ovviamente, vigliacchi di merda. Io li guardavo, senza fiatare, con quella rabbia che ti brucia dentro e che non sai dove mettere. Perché gridare non serve, combattere non serve. Se reagisci, peggiora. Sempre.
Ma non è stato quel momento a farmi esplodere. No, è stato quello che è successo dopo. La scena di sempre: la prof di scienze che entra e vede il disastro. Il mio quaderno per terra, la mia faccia rossa. E sapete cosa ha fatto?
Niente. Assolutamente niente. Si è limitata a scuotere la testa. «Ragazzi, su, comportatevi bene», ha detto. E basta.
Inutile prendersela solo con i bulli. Loro sono il sintomo, non la malattia. Il vero problema sono quelli come la prof di scienze, i genitori che fingono di non vedere, la società che si gira dall’altra parte.
Il capetto è così per colpa di suo padre, ne sono sicuro. Uno che torna a casa tardi e non gli parla mai. Oppure che gli urla addosso, lo spinge, lo annienta. E così lui fa lo stesso con noi, perché è l’unica cosa che ha imparato.
Ma è inutile fermarsi qui. Non è solo suo padre. È questa scuola, è questo sistema. È l’idea che solo il più forte sopravvive, che se sei debole sei spazzatura.
È tutto fatto per schiacciarti. Ogni maledetta cosa. I voti che ti dicono chi vale e chi no. Gli insegnanti che premiano i primi della classe e lasciano gli ultimi a marcire nel loro angolo. Le famiglie che non insegnano la cooperazione ma la competizione, perché «devi essere il migliore». E se non lo sei, è colpa tua.
Ma non è vero. Non è colpa mia se loro mi prendono a calci. Non è colpa mia se vivo in un mondo che applaude chi urla più forte (guarda in tv) e ignora chi ha solo bisogno di una mano.
La società intera è una gabbia. Una gabbia di solitudine, di competizione, di sopraffazione. I bulli non sono altro che i sintomi di questa malattia. Un po’ come la febbre quando hai l’influenza.
Ma nessuno vuole vedere l’infezione. Tutti si concentrano sul sintomo: punire i bulli, sospenderli, mandarli in punizione. Pensano che questo risolva qualcosa. Non risolve niente.
La verità è che nessuno vuole cambiare la gabbia. Perché cambiare è scomodo, richiede di guardare in faccia le cose per quello che sono. Richiede di ammettere che questa scuola, questa società, è fatta per produrre bulli e vittime, per separare i forti dai deboli, per lasciare indietro chi non ce la fa. Richiede di ammettere che il problema non sono i bulli. Il problema è tutto il resto.
E allora che fai? Te lo tieni. Stringi i denti. Aspetti il suono dell’ultima campanella e corri a casa, dove – se sei fortunato – puoi chiuderti nella tua stanza e fingere che il mondo non esista.
Ma anche lì, nel silenzio, senti la loro voce che ti rimbomba nella testa. E ti chiedi quanto dovrai resistere prima di non farcela più.
Ma io ho deciso una cosa. Non mi arrenderò. Non a loro, non a questa scuola, non a questo mondo. Fuori da questa gabbia deve esserci qualcosa di meglio. Deve esserci un posto dove non devi essere il più forte per sopravvivere, dove puoi essere te stesso senza paura. E un giorno lo troverò. E quando lo troverò, non lascerò nessuno indietro.
(A. Battantier, Memorie di un adolescente, Mip Lab, AG15, 1/2015)
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