In una piccola casa ai margini della scogliera, corrosa dal sale e dai venti, viveva Elias, ma aveva smesso di vivere.
Lo si vedeva seduto sulla veranda, gli occhi persi nel mare, un bicchiere di qualcosa sempre a metà sul tavolo. Aspettava. Cosa, non era chiaro nemmeno a lui.
Una mattina, prima dell’alba, bussò alla porta una donna. Portava un cappotto leggero, inadeguato al vento tagliente, e una borsa che sembrava pesare più di lei.
«Posso entrare?» chiese, senza esitazione.
Elias la fissò a lungo, cercando di capire se fosse reale o un’altra illusione del mare. Poi fece un gesto vago verso la sedia accanto a sé.
La donna non si sedette. Rimase in piedi, dritta, con le mani intrecciate davanti a sé come una supplente che aspetta il silenzio in una classe rumorosa.
«Sei morto?» gli chiese.
Lui si voltò verso di lei, sorpreso, poi rise: «Non ancora, a quanto pare..sono qui, no?.»
«Essere qui non significa vivere.»
Elias sbuffò. «Senti, non so chi sei o cosa vuoi, ma non ho bisogno di lezioni sulla vita da una sconosciuta.»
La donna si chinò leggermente verso di lui. «Non sono qui per darti lezioni. Sono qui perché ho sentito il tuo silenzio.»
Il vento soffiò più forte, spingendo onde contro la scogliera. Elias strinse le spalle nel suo maglione. Lei proseguì:
«La paura è un suono, sai? Si sente anche quando non parli. Vibra dentro le ossa, ti paralizza. Ti impedisce di fare qualsiasi cosa, perfino di respirare davvero.»
Elias si irrigidì. «Non ho paura. Non più.»
La donna sorrise. Non era un sorriso di derisione. «Allora perché sei qui, fermo, da un bel po', direi?»
Lui non rispose. Guardò il mare, cercando qualcosa nelle onde, ma tutto ciò che vide fu il vuoto che lo aveva inghiottito anni prima.
«Ho provato a vivere,» mormorò infine. «Non ha funzionato.»
La donna si sedette finalmente, posando la borsa accanto a sé. La aprì e ne estrasse un piccolo pettine di legno. Iniziò a passarlo tra i capelli, senza fretta.
«Non ha funzionato o hai avuto paura che non funzionasse?»
Elias la fissò, confuso. «Che differenza fa?»
«La stessa differenza tra la morte e la vita.»
Un lungo silenzio cadde tra loro. Il vento ululava, portando con sé il grido di gabbiani invisibili.
Elias si sentiva intrappolato, come se la donna avesse preso il controllo dell’aria intorno a lui.
«Tu…» iniziò, ma non sapeva come continuare.
«Io cosa?»
«Tu non sembri avere paura.»
Lei smise di pettinarsi e lo guardò. «Oh, io ho paura. Ne ho ogni giorno. Ma non la lascio guidare la mia vita.»
Elias rise di nuovo, amaro. «Facile a dirsi.»
La donna si alzò, lasciando cadere il pettine sulla sedia. Fece qualche passo verso il bordo della scogliera e si fermò, con il vento che le agitava i capelli.
«Sai cosa mi ha insegnato la paura?» chiese, senza voltarsi.
Lui non rispose.
«Che non c’è niente di più ridicolo che aspettare. Aspettare di essere pronti, aspettare il momento giusto, aspettare che la paura passi. La vita non aspetta. E ogni attimo che passi a temporeggiare è un attimo che non tornerà mai più.»
Elias si alzò lentamente, si avvicinò alla donna, guardò il mare agitato sotto di loro
«E se cadessimo?» chiese, la voce appena un sussurro.
Lei si voltò verso di lui, e nei suoi occhi c’era una luce che Elias non capiva.
«E se volassimo?»
Elias rimase immobile, con il vento che gli sferzava il viso, mentre quelle parole continuavano a risuonare dentro di lui, scavando, spingendo, distruggendo.
Quando la donna si allontanò lungo il sentiero, lasciandolo solo sulla scogliera, Elias non sapeva ancora cosa avrebbe fatto.
Non era più un uomo che aspettava. Non ancora uno che agiva. Ma qualcosa stava per iniziare.
(A. Battantier, Memorie di un amore, Mip Lab, Duncan, Anastasia, 1/25)
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