Giancarlo si svegliò nel cuore della notte, la gola secca, la mente avvolta in un torpore strano, un incubo che non riusciva a ricordare. Ma c’era un suono, un frinire che si insinuava nel silenzio della sua stanza, penetrando attraverso le finestre chiuse, ronzando tra le pareti come un’ossessione. Le cicale. Le cicale a Parigi.
Non le sentiva da più di dieci anni, forse più. Eppure, quel frinire era inconfondibile, un richiamo ancestrale che lo trasportava a sud, alle estati roventi di Roma, dove il sole bruciava l’asfalto e l’aria era densa di olezzo di pini e i cipressi del Verano dove andava a studiare da ragazzo.
Ma ora? A Parigi?
Nel tredicesimo arrondissement, il canto delle cicale sembrava una nota stonata, una dissonanza in un’opera che non aveva senso... apparente.
Scostò la tenda, guardando fuori.
Il cielo era di un nero assoluto, senza stelle, un sipario calato sull’ultima scena di un dramma.
E quel frinire, sempre più forte, più penetrante, sembrava provenire da ogni angolo, rimbalzando sulle facciate dei palazzi, scendendo lungo le strade vuote.
Giancarlo non era un esperto di cicale.
Forse, pensò, era un segno di rinaturalizzazione.
Con le Olimpiadi e la pausa d’agosto, la città si era svuotata; niente macchine, niente rumore, solo la città spettrale, abbandonata a un silenzio troppo perfetto. E dunque le cicale avevano trovato lo spazio per invadere Parigi con il loro canto incessante.
Da dove venivano?
E perché ora?
Le cicale, che una volta erano confinate alle regioni più calde del Mediterraneo, ora si stavano facendo sentire in una Parigi che non riconosceva più.
Il clima stava cambiando, le stagioni si confondevano, e con esse gli ecosistemi.
Il riscaldamento globale, gli aveva spiegato Millo Peg, il suo amico biologo, stava alterando il mondo in modi che ancora non comprendevamo del tutto.
Le cicale non avrebbero dovuto essere lì, non in quel numero, non con quel suono che sembrava invadere ogni spazio vuoto, ogni pensiero, ogni respiro.
Giancarlo uscì in strada.
Non era il solo.
Gli abitanti del quartiere si erano riversati fuori dalle case, attratti dal frinire ipnotico, falenoni attorno a una luce troppo brillante.
Alcuni ridevano, altri registravano il suono con i telefonini, qualcuno addirittura ballava il ritmo in mezzo alla strada deserta.
Il suono delle cicale divenne più forte, più acuto.
Giancarlo si portò le mani alle orecchie, ma non servì a nulla.
Il frinire penetrava nella sua mente, una lama sottile, facendo risuonare dentro qualcosa d'immenso che non riusciva a fermare.
Intorno a lui, la folla cominciava a muoversi in modo strano, come se stesse perdendo il controllo, come se stesse impazzendo.
Le persone cadevano in ginocchio, urlando, piangendo, mentre il suono cresceva e cresceva, fino a diventare insopportabile.
Era l’inizio della fine, pensò Giancarlo. L’Apocalisse non sarebbe venuta con il fuoco o con l’acqua, ma con il frinire delle cicale.
Le cicale cantavano a morto, e il loro canto era la colonna sonora dell’ultimo atto, del crollo di una civiltà che aveva ignorato ogni avvertimento, che aveva giocato con la natura fino a romperla.
Anche Giancarlo cadde in ginocchio, il frinire una morsa intorno alla sua testa. Il suono era ovunque, in ogni nervo, in ogni sinapsi, penetrava nel suo cervello come un parassita, scavando, mordendo.
Marcel, il compagno di Gianfranco, si svegliò e lo abbracciò, poi se ne andarono in cucina a bersi una birra.
Marcel cercò di rassicuralo, non era mica tanto d'accordo con quella visione terribile.
Secondo lui c'era meno traffico, "il rumore della città è meno invadente, e quindi ora le sentiamo...poverine...non sono sopraffatte dal caos urbano".
Il frinire delle cicale se la batteva con il rumore dei condizionatori, Giancarlo sudava, Marcel si andò a fare la sua decima doccia della giornata.
(A. Battantier, Frammenti per l'Apocalisse, Millo Peg e le memorie della Terra, 2024)
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