L’estate era una di quelle interminabili, sospesa nel calore che deformava l’orizzonte e faceva tremolare i ricordi come miraggi.
Avevo dodici anni, passavo le ore nascosto nella casa sull'albero, un rifugio costruito con legni sconnessi e immaginazione, sospeso a pochi metri da terra ma abbastanza lontano da sentirmi al sicuro, l’unico custode di un mondo separato.
Sarà stato un pomeriggio di quelli che si ripetono identici eppure sempre nuovi, quando la vidi per la prima volta.
Lei, la ragazzina della campagna vicina, era apparsa tra le file di balle di fieno che punteggiavano il campo.
Ogni suo sguardo mi colpiva al cuore con una precisione inaspettata, come se avesse il potere di penetrare oltre la corteccia rugosa dei miei pensieri infantili, toccando qualcosa di profondo e sconosciuto: Emozioni.
Aveva una risata straordinaria, che si propagava nell’aria, facendo vibrare le foglie sopra me.
Da quell’altezza, le mostravo ad ampi gesti il mondo, quel mondo che mi sembrava così vasto e ricco di possibilità.
Le indicavo l’orizzonte, e le dicevo: “Un giorno tutto questo sarà tuo.”
Ma tutto ciò che si vedeva erano decine di balle di fieno, ordinate in file precise.
Solitamente mi guardava con un sorriso tra il curioso e il divertito. Ma quel giorno, la sua espressione era diversa, più seria, forse anche un po’ malinconica.
C’era qualcosa nell’aria, come se il tempo stesse rallentando, come quando si trattiene il respiro prima di un inevitabile prossimo cambiamento.
Decisi di fare un gesto audace, uno di quelli che pensi possano cambiare il corso degli eventi, come nei racconti che mi affascinavano.
Volutamente lasciai cadere la scaletta, osservandola scivolare giù con un rumore secco.
Speravo che questo la costringesse a restare, a condividere con me quel rifugio tra i rami, a prolungare quel momento di intimità sospesa.
Ma lei, come niente fosse, saltò giù e se ne corse via, senza voltarsi indietro, lasciandomi solo, abbarbicato all’albero un naufrago su un’isola deserta.
Rimasi fessacchiotto, guardando il punto in cui era scomparsa tra le balle di fieno, e pensai di non scendere mai più, di restare su quell’albero come il mio amico Cosimo, che sugli alberi ci restò tutta la vita.
Ma l’idea, per quanto allettante, era difficile da mantenere. Scesi per la cena.
Le malinconie ogni tanto mi assalivano, sentivo il cuore stretto in una morsa, senza sapere il perché (lo sapevo, lo sapevo!), piangevo in silenzio, per poi tornare a sorridere, come se nulla fosse.
Quell’estate fu un alternarsi di attimi, di pianti e sorrisi, di scene che si scolorivano alla luce del giorno e si intensificavano nel buio della notte.
Ogni giorno, mi nascondevo a giocare nella casa sull’albero, aspettando di rivederla, sperando che un suo sguardo potesse di nuovo colpirmi al cuore, come una freccia scoccata con la precisione di un sogno.
Ma il tempo continuava a scorrere, e la realtà, con i suoi enunciati incomprensibili, si imponeva su quel mondo onirico che avevo costruito: Si fidanzò con "Bicchierino", un ragazzetto due o tre anni più grande di me.
Restò l’eco di un’emozione che si fece sempre più distante.
Quell'estate finì, e con essa si dissolse il mondo che avevo costruito.
La casa sull’albero divenne un ricordo, un rifugio che esisteva ormai solo nella mia mente.
Ma quella ragazzina, con la sua risata straordinaria e il suo sguardo dritto al cuore, rimase con me, scolpita nella memoria come una delle prime emozioni forti della mia vita.
Il tempo avrebbe portato altre estati, altre malinconie e altri sorrisi, eppure quel primo amore infantile sarebbe rimasto per sempre, lontano e vicino, a vibrare tra i rami di un albero che non avrei mai dimenticato.
(A. Battantier, Memorie di un amore, Memorie di un bambino, 15 storie d'amore e la fiaba di Hélène, 2002)
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