Edo era uno di quelli che aveva passato troppo tempo ad aspettare. Non sapeva nemmeno più cosa aspettasse.
Vent'anni che non vedo un giorno diverso dall'altro, mi diceva, ma sempre con quella scintilla di speranza negli occhi che gli alieni finalmente sarebbero arrivati a portarlo via.
"Un mio amico aspetta da 20 anni gli alieni, ogni tanto qualcuno se ne va, soprattutto i ragazzi, vanno via" gli dicevo ogni tanto, come per ricordargli che anche la follia è contagiosa.
Viveva in un piccolo appartamento a San Lorenzo, bottiglie vuote e mozziconi di sigarette, libri di fantascienza ammucchiati in ogni angolo.
C'era qualcosa in lui, l'orma di un uomo che una volta era stato felice, o almeno ci aveva provato.
"Se mi prendessero gli alieni sarebbe un piacere," diceva con un sorriso amaro, "e poi una bella vacanza da questo mondo di merda ci vuole. Epperò mi sa che prendono prima i ragazzi, lo vedi? I ragazzi vanno via".
Io annuivo, alzando il bicchiere. "La vita va maneggiata con cura prima che te s'encùla", rispondevo, cercando di trovare un senso in quelle serate fatte di canne e risate.
Eravamo due solitudini che si trovavano ogni tanto. La verità ci rende liberi, ed anche tanto soli, e in questo c'era una sorta di conforto. Certo, gli alieni, con la verità non è che tanto c'entrassero, epperò, per stare in compagnia, questo e altro.
C'erano sere in cui parlavamo fino all'alba, altre in cui il silenzio era l'unico suono.
Ma c'era sempre un senso di intimità, di comprensione che ci legava. "Che ti credi," diceva ogni tanto con una risata amara, "che tutto questo abbia un senso?".
Ed io sorridevo, sapendo che forse l'unico senso era proprio in quella domanda, in quel cercare qualcosa che ci sollevasse dalla banalità quotidiana, dal vento contrario che ci teneva a terra.
"Sempre andare controvento," diceva, alzando il bicchiere in un brindisi immaginario, "solo così è possibile alzarsi in volo. Guarda i ragazzi, i ragazzi vanno via".
E in quel momento ci credevamo davvero.
(A. Battantier, Racconti, 2002)
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