Il vento portava con sé il suono familiare del battito d’ali e dei cinguettii sommessi.
Seduta sulla vecchia sedia di legno, Marguerite osservava l’andirivieni degli uccelli sopra la sua casa, costruita un poco alla volta.
L’edificio era un intreccio disordinato di assi e finestre raccogliticce, ma per lei era molto più di una semplice abitazione.
La sua casa era un rifugio, un nido cresciuto nel tempo, un mosaico accroccato di vite e storie. Ogni pezzo aveva una storia, come le cicatrici e rughe sulla sua pelle.
Marguerite viveva sola, o almeno così dicevano gli altri. Ma in realtà non si sentiva mai sola.
Gli uccelli erano la sua compagnia costante, la sua famiglia.
Uccelli d’ogni tipo si radunavano intorno a lei, richiamati dalle mangiatoie che riempiva diligentemente ogni giorno.
Piccioni, colombi, tortore, passerotti: erano tutti fratelli per lei, ognuno con la sua voce unica e con il suo modo di essere.
Li conosceva uno per uno, li aveva visti crescere, li aveva curati nelle giornate fredde e piovose, li aveva protetti dai gatti del quartiere e dagli sguardi diffidenti dei vicini.
“Io li proteggo,” mormorava tra sé, con quella tenerezza ruvida che la caratterizzava. “Sono qui per loro, e loro sono qui per me.”
Marguerite aveva un legame speciale con loro. Era un amore, puro e semplice, che riempiva ogni angolo della sua vita.
Non importava se i vicini si lamentavano delle cacche degli uccelli sui tetti, o se trovavano bizzarro il modo in cui aveva costruito la sua casa.
Lei sapeva che, alla fine, ciò che contava era quel suono.
Il suono degli uccelli che si posavano sulle travi, il battito d’ali che riempiva l’aria.
Quel giorno, come tutti gli altri, si arrampicò con cautela sulla scala di legno, ormai consumata dagli anni, per raggiungere una delle mangiatoie più alte.
Le mani si aggrappavano saldamente ai pioli, il corpo si muoveva con l’abilità di chi aveva fatto quel gesto centinaia di volte.
Una volta in cima, versò con cura il mangime, osservando con soddisfazione gli uccelli che già si radunavano.
“Eccoli qui, i miei cari,” disse tra sé e sé, un sorriso adombrato dagli anni le piegò le labbra. “Non mi tradiscono mai.”
Marguerite sapeva che il suo era un piccolo mondo che aveva scelto, che aveva costruito giorno dopo giorno, con amore e pazienza.
Ora scendeva con calma dalla scala, e la vista del suo piccolo regno le riempì il cuore di una dolce serenità.
Lo sapeva, lo sapeva benissimo che c’erano cacche da pulire sul tetto e che qualcuno, da qualche parte, stava scuotendo la testa davanti alla sua vita stramba.
Ma per Marguerite non c’era nulla di più bello del suono degli uccelli, nulla di più confortante del fruscio delle piume.
Mentre si sedeva di nuovo sulla sedia, chiudendo gli occhi per ascoltare meglio quel concerto, si sentì invasa da un sentimento di gratitudine.
Una gratitudine semplice, come semplice era la sua vita.
Una gratitudine che si mescolava a quel senso di amore che la legava a ogni creatura che aveva nutrito, curato, amato.
“Voi siete la mia famiglia,” pensò, sentendo il calore del sole sulla pelle e il suono degli uccelli tutto intorno a lei.
“E io vi curo tutti, ogni giorno, finché avrò fiato in corpo.”
Come ogni giorno, Marguerite rimase lì, seduta tra le sue mura imperfette, ascoltando il suono della vita che si svolgeva sopra di lei. In quel momento, non le mancava nulla.
(A. Battantier, Memorie di un amore, Memorie di un animale, 2024. Art by Guriy Zakharov e Tatyana Sokolova, 1975)
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