La paura ti segue a distanza, annusa la tua scia, ti aspetta dietro l’angolo con i denti scoperti.
Sa essere subdola: ti cresce dentro come un’ombra che si allunga, lenta, inesorabile.
A un certo punto, non sai più se sei tu che la temi o se è lei che ti abita.
La paura è il fiato caldo sulla nuca quando pensi di essere solo.
È il piede che sfiora qualcosa nel buio e non vuoi sapere cosa.
È l’occhio che si apre nella serratura.
Ma non è solo questo.
È anche l’attesa.
È lo squillo che non arriva.
È il coltello che non cade.
È la promessa non mantenuta di una disgrazia che non ha fretta.
E se fosse la mano che stringe la tua nel sonno, l’ultimo sguardo prima di un addio?
Una carezza che resta sospesa a metà?
La paura ha il volto di chi amiamo.
E di chi ci ha amato.
La paura è una stanza chiusa, senza finestre né porte.
Il mondo fuori è vasto, ma tu resti lì, fermo, a contare i battiti del cuore.
Ti dicono che sei al sicuro, ma sai che non è vero.
Eppure, a volte, è solo un gioco della mente, un trucco dell’infanzia che si ostina a non morire.
Storie raccontate sottovoce, storie di mostri e di fantasmi che non esistono più.
La paura ci segue fin dalla nascita.
Ci plasma, ci educa, ci tiene in vita e ci distrugge.
Non si può sfuggirle perché siamo noi stessi a crearla.
La paura esiste solo quando la guardiamo.
È un pensiero, una costruzione della memoria, un'anticipazione del futuro.
Se la osservi senza fuggire, senza combattere, senza nominarla, si dissolve.
Come un’onda che torna al mare.
Un giorno la paura bussò alla porta del coraggio.
Il coraggio si alzò, andò ad aprire, e fuori non c'era nessuno.
(A. Battantier, Memorie di un adolescente, Mip Lab, 9/25)
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