Ogni volta che soffriamo per una perdita—che sia la fine di un amore, la morte di una persona cara, o uno di quei distacchi più sottili che la vita ci impone—ci troviamo di fronte a un bivio.
Possiamo scegliere di restare aggrappati al dolore, permettendogli di diventare la misura della nostra esistenza, o possiamo accettare ciò che è inevitabile: che la vita è un flusso costante, e in questo flusso nulla rimane mai identico.
Nella sua mutabilità, la vita ci chiede di rinascere ogni volta che perdiamo. Ma cosa significa rinascere?
Rinascere non è mica necessariamente un atto eroico di volontà, ma un processo sottile di accettazione e adattamento.
Il lutto, in ogni sua forma, non è qualcosa che superiamo o dimentichiamo. Ci accompagna, ci forma, si mescola al nostro essere, trasformandoci.
Non possiamo tornare a essere quelli che eravamo prima della perdita, perché il distacco cambia la trama stessa della nostra identità.
Il dolore si sedimenta, diventa parte di noi, eppure, anche in questo, continuiamo a essere noi stessi.
Ciò che chiamiamo "io" non è mai stabile. La nostra identità è un costrutto, modellato da innumerevoli esperienze, relazioni e desideri.
Quando una persona che amiamo scompare dalla nostra vita, sia essa viva o morta, non perdiamo solo l'altro, ma anche una parte di noi stessi.
Il modo in cui ci riflettevamo in quella persona, l'immagine di noi che essa ci rimandava, si dissolve, e con essa anche quell'identità che avevamo forgiato in relazione a loro.
Questo è il dolore più grande del distacco: la frattura nell'immagine che abbiamo di noi stessi.
Ma, proprio in questo spazio vuoto, in questa frattura, c'è la possibilità di una rinascita.
Non dobbiamo più essere legati a una sola definizione di noi stessi.
Il lutto, allora, diventa un'occasione, anche se dolorosa, per scoprire nuove parti di noi, per espandere la nostra identità.
È come se la perdita creasse lo spazio necessario per una metamorfosi interiore.
La crisalide del dolore si rompe, e anche se siamo sempre noi, mutati, possiamo trovare ali nuove per sollevarci di nuovo.
Ma è sufficiente aggrapparsi all'idea che il dolore può trasformarci? O c'è qualcosa di più fondamentale che dobbiamo affrontare?
L'origine del dolore non è solo la perdita in sé, ma l'attaccamento, il nostro desiderio di trattenere ciò che è destinato a passare.
In questo, la vita ci impone una lezione dura ma necessaria: tutto è impermanente. L'amore, le relazioni, la vita stessa sono transitori, eppure ci comportiamo come se fossero eterni.
È proprio questo attaccamento, questa paura del cambiamento, che ci rende prigionieri del dolore.
Quando una persona cara muore, o quando un amore finisce, non soffriamo solo per la loro assenza, ma per la nostra incapacità di accettare che tutto ciò che viviamo è temporaneo.
Vogliamo che l'amore, la felicità, persino il dolore, restino fissi, immutabili. Ma la vita non è fissa. Non lo è mai stata.
Ma io lo so, c’è una differenza tra comprendere l’impermanenza intellettualmente e viverla emotivamente
Il lutto non è solo una questione filosofica, è una questione del cuore.
Le emozioni non possono essere semplicemente razionalizzate o superate con una consapevolezza più alta.
Il dolore va attraversato, sentito, accolto.
Epperò, anche nel cuore della sofferenza, possiamo riconoscere una verità sottile: non siamo mai completamente soli.
Anche se chi amiamo non c'è più, portiamo sempre con noi l'impronta di quel legame.
E il dolore non va negato, ma compreso così profondamente da trasformarlo.
Il dolore del distacco non è solo una ferita, ma un varco attraverso cui possiamo cogliere che noi non siamo definiti dalle nostre relazioni, dai nostri successi o fallimenti, ma dalla capacità di fluire con la vita stessa, senza resistenze.
La saggezza di questa visione mi convince solo in parte poiché so che la natura umana è attaccata ai propri legami.
Possiamo forse raggiungere la libertà, ma l'amore è una forza così forte, così profondamente radicata in noi, che non possiamo evitare di attaccarci.
Forse, la sfida non è eliminare l'attaccamento, ma imparare a vivere con esso senza essere spezzati dal dolore che inevitabilmente porta con sé.
Imparare che, anche se perdiamo qualcuno o qualcosa, possiamo continuare a crescere, a mutare, a risorgere dalle nostre stesse ceneri.
Rassegnazione e/o trasformazione. Ogni volta che perdiamo, ogni volta che un pezzo di noi viene strappato via, risorgiamo, ma non come siamo stati prima.
Il distacco ci insegna una lezione fondamentale: l’Io è sempre in movimento, sempre in cambiamento.
Nulla è mai perduto completamente, perché tutto ciò che abbiamo amato, tutto ciò che abbiamo vissuto, si riversa dentro di noi, diventando parte di quella corrente che ci definisce.
Non serve rifiutare il dolore, più utile è vederlo per quello che è: una porta verso una comprensione più profonda, una nuova rinascita.
E in quella rinascita, ci è concesso non solo di risorgere, ma di continuare ad amare, anche se in forme nuove e in modi inattesi.
Il senso ultimo della vita potrebbe essere quello di risorgere sempre, anche mutati, imparando ogni volta a vivere, a perdere e a rinascere ancora, in un legame perpetuo tra l'attaccamento e la libertà, tra la sofferenza e l'amore.
(A. Battantier, D. Doutest, Memorie di un amore, Mip Lab, 10/24)
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