Il portone cigolò appena quando Luca vi poggiò la mano, come se, all'ultimo, la casa stessa volesse trattenerli, rimandare di un istante quell’addio che pesava su entrambi.
Lo sguardo di Enrico si mosse sul volto del fratello, soffermandosi sulle sue dita che scorrevano leggere sulla maniglia ormai ossidata, su quel gesto familiare ripetuto da decenni.
Per un attimo si fermarono, trattenendo il respiro davanti a quel portone così vecchio e così loro.
Erano trascorsi pochi minuti da quando erano arrivati, e già il peso di quell’ingresso sembrava opprimerli.
Il salotto li accolse in un silenzio immobile, impolverato, sospeso, una tela dimenticata che trattiene ancora tracce di colore sbiadito.
Era rimasto intatto, il tempo si era fermato in quella casa della Giocheria che aveva visto tanta vita e tante vite scorrere tra le sue mura.
Enrico sentì un brivido percorrergli le braccia, una sensazione di vuoto che non aveva previsto (o almeno, non così).
Labile il confine tra la realtà e l’ombra di un sogno sbiadito.
Ogni oggetto, ogni angolo parlava una lingua muta, la lingua dei ricordi trattenuti, delle emozioni sospese.
“Ricordi la sera che papà ci portò qui quella radio enorme? Era una Grundig Satellit” domandò Luca, fissando il mobile scuro vicino alla finestra. La radio era ancora lì, spenta da anni.
Luca non aspettava davvero una risposta, sapeva già che Enrico ricordava, proprio come ricordava lui.
Era una di quelle sere d'ottobre in cui il vento s'insinuava attraverso i vetri chiusi, portando con sé il profumo dell'autunno e il rumore della città lontana.
Il padre aveva introdotto la radio nella stanza con un sorriso trionfante, e i due fratelli, bambini allora, avevano guardato l'apparecchio con occhi sgranati, come se fosse una finestra sul mondo.
Quella radio li aveva accompagnati per anni, e ora giaceva lì, muta, testimone di un tempo svanito.
Continuarono a camminare, passo dopo passo, fra tanti vividi ricordi che ora si sarebbero staccati dai luoghi per restarsene in qualche cantuccio nella memoria.
Luca si fermò sulla soglia della cucina, il sole filtrava debole dalle tende mezze sdrucite, gettando una luce calda e polverosa sul tavolo.
Enrico lo seguì, osservando la stanza con un senso di vuoto allo stomaco.
Era lì che la madre li aveva nutriti, cresciuti, ammoniti e abbracciati. Era lì che avevano trascorso le mattine pigre delle domeniche, con il profumo di caffè e pane tostato che riempiva l’aria.
“Chiudi gli occhi...si sente ancora il profumo della torta di mele,” mormorò Enrico. “Quella che mamma faceva il sabato.”
Luca annuì, senza distogliere lo sguardo dal tavolo. Anche lui poteva sentire quell’aroma, ancora lì, sospeso nell’aria.
Era un gioco della mente che tentava disperatamente di aggrapparsi al presente.
Salendo le scale, il loro passo divenne più lento, il rumore dei passi riempiva il corridoio vuoto, rimbalzando contro le pareti nude.
Ogni scatto delle assi sotto i loro piedi sembrava un sussurro, un bisbiglio che li richiamava indietro, verso un tempo in cui quelle stesse scale avevano visto le loro corse affannate e le risate soffocate.
Si fermarono davanti alla porta della vecchia camera di Enrico, e lui esitò, posando la mano sulla maniglia.
Gli sembrava di poter ancora vedere il ragazzino che era stato, rannicchiato sul letto con un libro aperto sulle ginocchia.
Quando la porta si aprì, la stanza era esattamente come l’aveva lasciata, ma tutto sembrava stranamente ridotto, rimpicciolito, stinto.
Le pareti erano ancora tappezzate di manifesti scoloriti, immagini di gruppi musicali, e una vecchia scrivania ingombra di fogli ingialliti occupava l’angolo accanto alla finestra.
Enrico si avvicinò alla finestra e si chinò, guardando fuori verso il giardino. Il vecchio albero di ciliegio, dove si arrampicavano da bambini, era ancora lì, ma appariva più scarno, anch’esso avesse subito il peso degli anni.
“Eri sempre tu a convincermi ad arrampicarmi più in alto,” disse Enrico, accennando un sorriso malinconico. “E io, stupido, che ti seguivo ogni volta. Setto nasale, radio e ulna, ricordi!?”
Luca ridacchiò, un suono breve e quasi spezzato, che si disperse rapidamente nell’aria. “Non eri tanto stupido,” rispose piano. “Avevamo solo il coraggio che hanno i bambini… o forse non sapevamo quanto poteva essere fragile il mondo...o un ramo di ciliegio.”
Le parole si dissolsero nell’aria, lasciando un vuoto incolmabile. I due fratelli si guardarono per un lungo istante, e in quel silenzio ognuno poteva sentire il peso dell’altro, il carico dei ricordi condivisi e di quelli che appartenevano solo a loro.
Tutto ciò che erano stati, e che avevano vissuto, stava lì, sospeso tra loro, invisibile eppure reale, presente come un terzo corpo in quella stanza.
Quando infine tornarono al pianterreno, la luce del mattino si era fatta più intensa, e una strana quiete avvolgeva la casa.
Luca poggiò la mano sul corrimano, soffermandosi un attimo, come per imprimere nella memoria anche il contatto di quel legno levigato, usurato dal tempo e dalle mani che vi erano passate sopra.
Poi, lentissimamente si avviarono verso l'uscita.
Enrico aveva lo sguardo ancora perso in quel salotto che sembrava voler trattenere ricordi, emozioni, frammenti di vita.
Chiudere quella porta significava lasciare indietro una parte di sé, un pezzo di anima che nessuno avrebbe più potuto restituire.
Mentre uscivano, la casa restava in silenzio, si preparava a lasciarli andare.
Quando il portone si richiuse alle loro spalle, i due fratelli si scambiarono uno sguardo, consapevoli di aver abbandonato per sempre quel passato che li aveva resi chi erano; da quel momento sarebbe esistito solo nei loro cuori.
Tra i rintocchi lontani di una campana, Enrico piano sussurrò: “Il tempo si è fermato in questa casa, Luca. È l’unico posto dove mi sembra di poter tornare indietro, anche solo per un attimo.”
Quelle parole riecheggiarono nel silenzio della strada deserta, rimanendo sospese nell’aria, l’ultimo, fragile filo che li legava a ciò che avevano amato.
(A. Battantier, 15 storie d'amore e la fiaba di Hélène, La casa, Mip Lab, 2002. Art by Stephen Stadif)
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