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QUEL PALO DI METALLO

Da trentacinque anni, Carlo occupava il suo posto all'ingresso di grande università privata.

La sua giornata cominciava sempre allo stesso modo: apriva il gabbiotto, sistemava la sedia, e si appoggiava per un momento a quel palo di metallo non lontano dalla sbarra d’ingresso. 

Era il suo rituale, un gesto che sapeva di pace e di scioltezza nel ruolo che ricopriva.

Quel palo era parte di lui, o forse lui era parte del palo. 
Gli dava l'impressione di essere più saldo, più solido. 

Quando, anni prima, lo avevano installato, era poco più di un cilindro anonimo di metallo lucido. 
Ma col tempo, con la pioggia, il vento e le mani di Carlo a sfregarci contro, aveva preso colore, scurendosi qui e là, segnato da piccole abrasioni, graffi e incrostazioni che lui stesso riconosceva come si riconosce il viso di un amico. 

Una patina opaca di dita, mani, braccia, sudore: quello era il suo legame, la sua impronta in quel punto fisso, inamovibile. 

E c'era qualcosa di sicuro e definitivo in quel palo, come una sorta di garanzia che certi gesti, almeno quelli, non sarebbero cambiati mai.

Poi un giorno arrivò la notizia, lanciata con leggerezza da uno dei tecnici che giravano per l'università: 

“L’anno prossimo dovrebbero modernizzare tutta la zona ingresso. Niente più sbarra né palo… installeranno una di quelle barriere automatizzate a infrarossi, come negli aeroporti. Non avrai nemmeno più bisogno di alzarti dalla sedia.” 

Una frase buttata lì, quasi un consiglio, forse persino una premura, che però a lui gelò l’animo. 

Il palo, il suo palo… lo avrebbero rimosso. Era come se gli avessero detto che l’avrebbero amputato di un braccio o di una gamba. 

Pensò che una volta in pensione, senza quel palo, si sarebbe sentito fluttuare, incerto, con un vuoto che non sapeva descrivere.

Carlo cominciò a fantasticare. Immaginava se stesso, tra qualche mese, a casa, in campagna, appoggiato al palo come aveva fatto per tanti anni. 

Magari poteva andare a chiedere al tecnico se, alla fine, avrebbero davvero smantellato tutto, e se così fosse stato, che gli cedessero il palo. 

Se lo sarebbe portato via, se lo sarebbe infilato in macchina (oddio, forse un camion!) anche se fosse stato ingombrante, anche se qualcuno avesse trovato la cosa ridicola. 

Si sarebbe messo il palo nel giardino, magari davanti al portico, proprio accanto alla sua vecchia sedia di vimini.

Una cosa da pazzi? 
Ma cosa ne potevano sapere gli altri di quel legame?

Qualcuno dei giovani colleghi lo osservava con curiosità e commiserazione, quella riservata agli anziani che parlano da soli o si muovono in gesti che ormai paiono svuotati di significato. 

Carlo però sapeva che un significato c’era. 
Gli bastava poggiarsi per sentire un filo di tranquillità, una sicurezza impalpabile.

L'ultimo giorno, però, arrivò prima del previsto, quasi di sorpresa. 
Non c'era più nessuna scusa, nessun rinvio possibile. 
Gli avrebbero dato un pranzo di addio, un piccolo omaggio, e poi avrebbe lasciato l'università. 

Carlo si trovò a guardare il palo con una forma di tenerezza che non aveva mai provato nemmeno per certe persone. 

Accarezzò con la mano il metallo ormai ruvido, come fosse una vecchia pelle, e in un ultimo impeto cercò di tirarlo. 
Chissà, forse se riusciva a sradicarlo, lo avrebbe infilato nel bagagliaio e se lo sarebbe portato via, senza chiedere niente a nessuno. 
Ma il palo non si mosse di un millimetro.

Alla fine, la cerimonia di saluto si concluse e lui uscì dall’università senza quasi voltarsi, una decisione presa con una freddezza inaspettata, come se nulla avesse più senso. 

Non se la sentì di guidare. 
Salì sull’autobus, si sedette, e guardò il cancello scivolare via dietro di sé. 

E mentre il veicolo si allontanava, Carlo realizzò che quel palo, quel pezzo di metallo che credeva insostituibile, non gli mancava più come credeva. 

Invece, sentiva dentro un altro tipo di assenza, quella di tutto ciò che non sarebbe più stato lì a tenerlo in piedi, come quel palo.


***
Sentinella grigia mi regge, mi ferma.  
È un palo, mi ripeto, fatto di ferro e freddo,  
senza cuore né occhi.  

Ma mi riconosce,  
e con i suoi graffi, i segni del tempo, ha fatto mie le sue pieghe, e io le mie.

E se lo togliessero? 
Se lo portassero via?

Vorrei dirgli, che non vada, che si tenga saldo, come ha fatto per anni, per me.

Per quanti anni ci siamo tenuti su, io, con le spalle curve e lo sguardo addosso alla porta, lui, un cilindro freddo, incrostato come una ruga su cui ritorni con le dita.  

Quanti ricordi appesi lì, invisibili, quanti giorni legati a quella presa, il calore d’un palmo che resta più a lungo del ferro, che non sa più andarsene.  

Non esiste parola per la certezza che trovi in un metallo, che ti regge, anche quando il mondo scivola via.  

Nessuno si poggerà più a quel palo. 
E tu senti dentro un vuoto, ti viene da tirarlo, come se potessi strapparlo alla terra,  
portartelo dietro. 

Ma è più saldo di te,  
è lì che resta, fermo, immobile. 

Siamo noi che ce ne andiamo. 

(A. Battantier, Memorie di un amore, Mip Lab, 2024. Art by Stephen Stadif)


#memoriediunamore 
#stephenstadif 
#MIPLab 

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