Mi chiamo Luis, ho trentacinque anni e ogni mattina, prima ancora che la città si svegli del tutto, sono già qui. L’aria è umida, l’odore del cloro mi riempie i polmoni e i miei passi rimbombano sui pavimenti bagnati della piscina.
Sono l’uomo delle pulizie, quello che la gente non vede.
Il mio turno inizia alle sei in punto. Entro da una porticina laterale che dà direttamente sui locali tecnici. Qui c’è l’armadietto dove tengo i miei attrezzi: uno spazzolone grande, una secchiata di detergenti industriali e il mocio per i pavimenti.
La mia prima mansione è sempre la stessa, ogni singola mattina.
Mi occupo della zona bagnata, quella intorno alla vasca principale. L’acqua schizza continuamente a terra quando i nuotatori escono, lasciando pozze che si allargano fino agli spogliatoi.
La mia responsabilità è mantenere il pavimento asciutto, non scivoloso, per evitare che qualcuno possa cadere.
Così prendo lo spazzolone e inizio a passarlo avanti e indietro.
Sembra semplice, ma non lo è. Il pavimento non asciuga mai del tutto, basta una goccia, una nuova spruzzata d’acqua e devi ricominciare da capo.
Continuo a muovermi lungo il perimetro della vasca, passando lo spazzolone davanti a me, e ogni tanto mi fermo a strofinare con il mocio le zone più macchiate.
È un lavoro che richiede pazienza, e precisione, e abitudine a sparire.
Quando i primi nuotatori entrano, io mi sono già spostato verso gli spogliatoi.
Gli spogliatoi sono la parte peggiore. Non tanto per il lavoro in sé, anche se pulire i bagni, raccogliere capelli bagnati dalle docce, sistemare gli armadietti disordinati non è il massimo, ma per l’atmosfera.
Specie nel pranzo e primo pomeriggio è qui che mi rendo conto di non esistere.
Mamme che portano i bambini al nuoto, ragazzi con le cuffie in testa, uomini d’affari che nuotano nelle pause pranzo.
Mi passano accanto come se fossi parte dell’arredamento, un fantasma che si aggira senza fare rumore.
Parlano tra loro come se io non ci fossi, mi ignorano.
Nemmeno un "buongiorno", nemmeno un sorriso. Mi attraversano con gli occhi vuoti, e io rimango lì, chino con il mocio in mano, a raccogliere indifferenza come acqua che mi sforzo di asciugare.
I bagni sono una zona critica, sporchi in continuazione. I rubinetti che gocciolano, l’acqua che esce dagli scarichi intasati. Pulisco i lavandini con uno spray, poi passo allo specchio per toglierci le macchie delle dita o il vapore condensato.
Le piastrelle del pavimento le lavo in ginocchio (così pretende il capo), con uno straccio e il secchio accanto.
È un lavoro lento, ci vogliono almeno trenta minuti solo per sistemare una fila di bagni.
Nessuno si accorge di me. Entrano, escono, parlano al cellulare, chiudono porte, si preparano alla loro giornata mentre io mi dissolvo nel rumore di fondo. Un uomo invisibile, uno che non conta.
In certi momenti mi domando se qualcuno sa che esisto. Se mi vedono.
Mi ricordo di quando lavoravo come falegname in Ecuador, il rumore del legno sotto la sega, il calore delle mani che sentono ogni nodo e imperfezione della materia. Lì, almeno, il mio lavoro aveva un senso, lo potevo toccare. Qui no.
Qui pulisco, ma nessuno se ne accorge, a meno che io non sbagli qualcosa.
C’è una mamma che vedo quasi ogni giorno. Arriva con due bambini, li spinge verso la piscina e intanto controlla il telefono.
Un uomo, forse il padre, le cammina accanto e si ferma a parlare con lei senza mai guardarmi.
A volte ho provato a salutarli. “Buongiorno”, ho detto, ma non mi hanno risposto. Mi sono sentito stupido, come se avessi interrotto una conversazione a cui non ero invitato. Ho abbassato la testa e ho continuato a spazzare il pavimento.
Poi, un giorno stavo passando il mocio davanti agli spogliatoi, come al solito.
Era un sabato mattina, c’era molta gente.
I bambini correvano da una parte all’altra, ridendo e spruzzando acqua dappertutto.
Ero immerso nel mio lavoro, cercando di non inciampare in nessuno, quando ho sentito una voce dietro di me.
“Ciao!” Ho alzato lo sguardo, sorpreso.
Era uno dei bambini di quella famiglia, un ragazzino con i capelli lunghi scuri e spettinati, lo stesso che avevo visto mille volte correre verso la piscina.
Sorrideva. “Ciao,” ho risposto, un po’ incerto. Non sono abituato a queste cose.
Poi è arrivata la mamma, quella che di solito mi ignorava.
Si è fermata davanti a me e, con un sorriso gentile, ha detto: “Grazie per il tuo lavoro, ci rendi la vita più facile.”
Non sapevo cosa rispondere. Il marito, che stava poco più indietro, ha annuito, come a confermare le parole della moglie. Era come se, per la prima volta, mi vedessero.
I bambini hanno continuato a parlare con me. Mi chiedevano del mio lavoro, se mi piaceva e se alla sera faccio il bagno in piscina.
Sono rimasto sorpreso dalla loro curiosità, dalla loro spontaneità.
Per un momento mi sono sentito come se fossi uno di loro, una persona, non solo l’uomo delle pulizie.
E quando la famiglia se n’è andata, ho continuato il mio lavoro con una leggerezza nuova, come se le macchie e l’acqua fossero più facili da rimuovere.
So che la maggior parte delle persone continuerà a non vedermi, a passarmi accanto senza un cenno.
Ma ora so che, almeno per qualcuno, esisto davvero. Grazie a voi, bambini.
(A. Battantier, Memorie di un lavoro, Memorie di un amore, Mip Lab, 10/24. Art by Stephen Stadif)
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