Non credo in Dio, né nelle sue tante declinazioni: spiriti, santi, profeti o pastori autoproclamati.
E non credo neppure nelle favole sacre, cucite male e ripetute come una filastrocca.
La realtà non ha bisogno di sovrastrutture divine per essere accettata: è complessa, affascinante e, talvolta, terribile di per sé.
Ho sempre avuto poca pazienza per i dogmi.
Da bambino osservavo le persone inginocchiate nelle chiese con la curiosità che si riserva a un’antica tribù, persa nei suoi riti.
Mi chiedevo: perché recitare parole che non capivano davvero, alzando gli occhi verso un cielo vuoto?
Mi sembrava un’esibizione senza senso, un’abitudine tramandata.
I simboli religiosi?
Non mi hanno mai commosso.
Non sono altro che manufatti: croci, candele, statue dipinte.
Gli oggetti hanno valore solo quando li carichiamo delle nostre emozioni, non quando qualcuno ce li impone come sacri.
Eppure da bambino c’era un momento in cui anch’io lasciavo spazio alla magia.
Il Natale.
Le luci che riempivano le strade, i pacchetti colorati sotto l’albero, quell’attesa quasi febbrile.
Gesù Bambino, mi dicevano. Forse ci credevo, o forse no, ma volevo crederci.
Non per la storia in sé, ma perché l’idea di qualcosa di straordinario mi dava conforto.
Crescendo, però, ho iniziato a vedere le cose per quello che sono: non c’è un disegno nascosto, né un ordine superiore.
La vita non è altro che una combinazione di eventi casuali, una danza di particelle.
Non c’è un piano, e non ci sono risposte definitive.
Ma questo non mi ha mai spaventato.
Al contrario, l’idea di essere libero da vincoli soprannaturali mi ha sempre dato un senso di responsabilità e, paradossalmente, di leggerezza.
Se non c’è un dio a cui rispondere, allora siamo noi a dover dare significato alle cose.
Siamo noi, con la nostra intelligenza, a illuminare il buio.
La stella sull’albero di Natale, quella, la guardo ancora.
Non perché rappresenti qualcosa di trascendente, ma perché mi ricorda che la luce non è un privilegio del divino.
È un fenomeno naturale, un semplice riflesso.
Eppure, quanta bellezza in quella semplicità.
Non cerco redenzioni o salvezze ultraterrene.
Non mi interessa cosa accadrà dopo la morte: la materia si trasforma, e tanto mi basta.
La vita è qui e ora, nei gesti quotidiani, nelle scelte che facciamo, nelle relazioni che costruiamo.
Quella stella, per me, è un simbolo umano, niente di più.
È il nostro tentativo di sfidare l’oscurità, di creare qualcosa che brilli, anche solo per un momento.
Una piccola scintilla contro il buio infinito dell’universo.
Non abbiamo bisogno di paradisi.
Ci basta questo: la capacità di meravigliarci, di cercare, di inventare.
E, in fondo, di non smettere mai di accendere stelle, anche quelle di plastica, anche quelle imperfette.
Perché la vita, per quanto fragile, è tutto ciò che abbiamo.
E non è poco.
(Andrea Battantier)
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"Qualcuno ha bisogno di una stella, è insostenibile un martirio senza stelle. Qualcuno finge calma, camminando inquieto.
È indispensabile che ogni sera, sopra i tetti, risplenda almeno una stella".
(Majakovskij senza punto interrogativo. Appunti post futuristi, M. Thompson Nati, 1956)
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