La nebbia era densa e gli alberi sembravano fantasmi intenti a spiare le due figure che si muovevano nel bosco, affondando gli stivali di gomma nel fango, pieni di quel tipo di eccitazione mista a paura.
“Lo senti?” chiese Andrea, con un soffio che si scioglieva nell’aria fredda.
“Non sento niente,” rispose Marco, ma le mani erano tese intorno al fucile.
In lontananza, un cane abbaiò, un suono piccolo si allargò nel vuoto.
Andrea sorrise. “Ci sarà qualcosa. Ci deve essere per forza qualcosa.”
Qualcosa. Non era importante cosa: una lepre, un fagiano, un cinghiale, un passerotto. Bastava quel movimento improvviso, il rumore di foglie calpestate.
La sensazione di possedere il momento, l’illusione di essere più forti, più grandi di quel respiro che attraversava il bosco.
Marco si fermò, scrutò tra i tronchi. “Là,” disse. Puntò il fucile.
“Dove?” Andrea si girò, incespicando su una radice. Fece per aggiustarsi il cappuccio, quando un rumore metallico tagliò l’aria come una lama.
Il suono sembrò schiantarsi contro la nebbia, poi tornò indietro.
Andrea era ancora in piedi, ma i suoi occhi erano vuoti. Lentamente cadde in ginocchio. Il sangue gli si aprì dietro la nuca come un fiore.
Marco non urlò. Guardò il corpo dell’amico come se fosse un oggetto caduto da una mensola, qualcosa di irreparabile. Si inginocchiò accanto a lui e lo toccò. Il corpo era già altro. Qualcosa che non rispondeva più, che non aveva più scuse, né risposte.
La foresta li circondava con un silenzio feroce. Marco rimase lì per un tempo indefinibile, gli occhi persi in un punto lontano.
Poi si alzò. Prese il fucile, lo sentì pesante come non mai.
Non pensò al dolore dei genitori di Andrea, né alla propria colpa. Non pensò nemmeno alla morte. Pensò alla nebbia, al modo in cui tutto si dissolveva senza lasciare traccia.
Un altro colpo. Poi, la foresta tornò immobile.
Un mese dopo, il sentiero era invaso di rovi. Nessuno aveva più camminato lì.
Gli animali, per un po’, avevano evitato il luogo, lentamente erano tornati.
Il vecchio custode della riserva passò di lì un giorno con il suo cane. Vide i segni sul terreno, ma non si fermò. Non c’era nulla da dire, nulla da capire. Tuttavia, quella notte, seduto nella sua cucina, si chiese: A chi appartiene il silenzio?
Non era una domanda facile, né forse utile; ma continuava a rimbalzargli nella testa.
Il silenzio apparteneva a chiunque fosse disposto ad ascoltarlo.
(A. Battantier, Memorie di un amore, Mip Lab, 12/24. Art by Stephen Stadif)
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