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UN AMORE A ORVIETO (e il senso del tempo)

Orvieto era per Luigi una città sospesa su un monte, dove ogni cosa odorava di terra umida.

Un giorno arrivò Maria, con i capelli spettinati e gli occhi da lupa (così almeno scrisse lui nei diari).

Luigi la vide per la prima volta mentre rubava una mela dal mercato. Aveva tredici anni, lui poco più.

«Non hai paura di essere presa?» le chiese.  

Lei non rispose, mordendo la mela come fosse una sfida. Poi gli sputacchiò i semini addosso, dicendo: «Se vuoi ne prendo una per te».  

Era così che le cose cominciarono tra loro.
 
La vita di Luigi a quell’epoca era un atto d’accusa: contro il padre autoritario, contro l’eterno rumore delle campane che scandivano le ore, contro la noia che si insinuava come un’ombra lenta. 

Maria era l’eccezione, un cortocircuito nella sua adolescenza già intrisa di malinconia.  

Ogni giorno, dopo scuola, si incontravano sul bordo della rupe, osservando il mondo sottostante come se fosse un pianeta distante. 

Lei gli parlava di fuga: «Un giorno me ne andrò. Roma, magari Parigi. Non voglio finire come mia madre, cucendo abiti per le signore.» 

Luigi la ascoltava divorandola con gli occhi. Maria non era solo una ragazzina, era un simbolo di libertà, di ribellione.

Il desiderio che Luigi provava non era solo fisico, né soltanto romantico. Ogni sorriso di Maria sembrava promettere l’eterno, ma Luigi sapeva, in qualche recesso oscuro della sua mente, che ogni momento era già passato nel momento stesso in cui lo viveva.  

Lo aveva sentito dire al fratello maggiore che ripeteva Heidegger e Bergson al tavolo della cucina. 

“Il tempo,” diceva Francesco con una voce profonda e pensierosa, “non è solo ciò che misuriamo con gli orologi. È un flusso continuo, un'esperienza interiore, un’onda che ci travolge mentre cerchiamo di trattenerla con le mani.” 

Luigi, seduto accanto a lui con una ciotola di cereali, non capiva molto, ma quelle parole lo affascinavano e lo avrebbero immalinconito per sempre.

Quel pensiero – che il presente fosse un fiume che scivolava via – si era insinuato in lui come una verità irrefutabile, anche se non sapeva darle un nome. 

Era il senso del tempo vissuto di cui parlava Bergson, quel continuo divenire che sfugge ai confini del linguaggio e della logica. 
Francesco amava anche parlare di Kierkegaard, tanto che gli sembrava quasi un vecchio amico.

“Viviamo sospesi,” diceva, “tra il rimpianto del passato e l’ansia del futuro. E il presente? Ci sfugge, Gigi. È come un respiro: quando ci accorgiamo di averlo fatto, è già passato.”

Accidenti a Luigi che lo ascoltava e poi quando ritrovava Maria esistenzialmente tremava.

Una sera, mentre guardava con Maria la luce del tramonto attraversare le foglie di un albero, si sorprese a pensare che il momento stesso in cui stava ammirando quel bagliore era già un ricordo. Gli sembrava che ogni istante contenesse in sé una  bellezza derivante proprio dal fatto che fosse destinato a svanire.

Epperò intanto Maria se ne fregava e lo baciava profondo con la lingua. 
Più tardi, Luigi avrebbe pianto al solo ricordo di quei baci infingardi e, per un attimo soltanto, buttava dalla rupe Agostino, con il suo “Io misuro il tempo, ma non so cos'è,” e Proust, che cercava di afferrare il passato attraverso il sapore di una madeleine. 

Ma allora, a tredici anni, non sapeva nulla di queste cose e di gran lunga quei baci e quelle mani goffe, ancora candide e già sensuali, sbaragliavano il campo, biologia stracciava filosofia 6-0. 

Sapeva Luigi che ogni istante era una sorta di miracolo, fragile e irripetibile; forse, pensava, suo fratello aveva ragione, ma lì alla rupe, che gliene importava?

Quando lei rideva, gettandosi all’indietro con quella imbarazzante spavalderia, Luigi non poteva fare a meno di pensare che quella risata sarebbe stata il suo primo rimpianto. 

Un giorno, Maria non venne più alla rupe. Luigi la cercò nel mercato, nei vicoli, nella piccola sartoria dove sua madre lavorava. Niente. Era come se non fosse mai esistita, se non per il vuoto che aveva lasciato.  

Gli anni passarono, e Luigi lasciò Orvieto per studiare a Roma. Ma quel vuoto lo seguì ovunque. Scriveva articoli, intervistava uomini di potere, raccontava storie di guerra e pace. 

Ma nei momenti di quiete, quando il mondo taceva, tornava sempre alla rupe, ai capelli spettinati di Maria, a quella mela che non aveva mai finito di mangiare.  

Cosa resta di un amore che non è mai diventato storia? Luigi scrisse di tutto, ma mai di Maria. La conservava come si conserva un segreto. 

Quel sorriso rubato, quella risata cristallina, si mescolavano ai ricordi di altre donne, di altri momenti. 

Ma Maria non si confondeva. Lei era il cuore pulsante di qualcosa che non aveva mai avuto un nome.  

Un giorno, Luigi tornò a Orvieto, vecchio e stanco. Salì sulla rupe, ora deserta, con lo stesso passo lento di chi sa che sta camminando verso un'ultima domanda. Guardò il panorama, il cielo che non era cambiato, e capì.  

Maria non era mai stata solo una persona. Era l’essenza di ogni cosa che Luigi aveva inseguito: la libertà, la giovinezza, l’illusione che il tempo potesse fermarsi. Non c’era nulla da rimpiangere, nulla da trattenere. La vita non è fatta per essere posseduta, solo per essere vissuta.  

Luigi chiuse gli occhi e sorrise. Non era più necessario ricordare.  

(A. Battantier, Memorie di un adolescente, Memorie di un bambino, Mip Lab, 12/2024)


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