Con Pietro era una battaglia quotidiana tra chi comandava e chi si lasciava trascinare, tra chi decideva il ritmo e chi si adattava.
E io, come una pedina inconsapevole, subivo la sua prepotenza.
La chiamava passione, ma non era altro che possesso; la spacciava per desiderio, ma era soltanto dominio.
E io, cieca di fronte alla mia stessa complicità, credevo di essere viva mentre lentamente mi spegnevo.
C’è stato un tempo in cui mi dicevo che forse il problema ero io, che non sapevo lasciarmi andare, che ero troppo rigida o troppo complicata.
Pietro mi faceva credere che la mia incapacità di "godere del momento", come diceva lui, fosse il freno che rovinava tutto.
Così mi piegavo, mi adattavo, fingendo persino di provare piacere in gesti che mi facevano sentire sporca, estranea a me stessa.
Mi diceva che dovevo essere "più donna", più libera, ma la sua idea di libertà era una prigione.
Lui venerava l’arroganza travestita da virilità, l’idea che l’uomo debba conquistare, rompere, dominare, come se le relazioni fossero un esercizio di potere.
Pietro non parlava mai d’amore: le sue parole odoravano di alcool e sudore, di una solitudine che si mascherava da perenne conquista.
Mi fa rabbrividire pensare a come certe idee abbiano plasmato Pietro e, in qualche modo, abbiano trovato terreno fertile nella mia insicurezza.
Metto finalmente nero su bianco che non era amore, non era nemmeno sesso.
Era una messinscena, una parodia di intimità costruita sul mio senso di inadeguatezza e sul suo bisogno di controllo.
Mi umiliava in modo sottile, dicendomi che ero speciale ma mai abbastanza; che avevo potenziale, ma che dovevo "imparare" a essere ciò di cui lui aveva bisogno.
E io lo ascoltavo, cercando di modellarmi su una figura che non mi apparteneva, annullando pezzo dopo pezzo quella che ero.
Dopo ho scoperto che si trattava di abuso emotivo, di una dinamica di potere che rispecchia ferite antiche mai elaborate.
Pietro non è altro che un prodotto di un sistema che glorifica l’arroganza e schiaccia la vulnerabilità.
Ma io? Io sono stata sua complice. E questa è la parte più difficile da accettare.
C’è un dolore profondo nel guardarmi allo specchio e riconoscere che ho permesso a qualcuno di dirmi chi dovevo essere, che ho tradito me stessa per paura di non essere amata.
Non voglio più vivere in funzione di un’altra persona, non voglio più fingere che l’umiliazione sia eccitazione, che il disgusto di me stessa sia il prezzo da pagare per avere compagnia.
Pietro potrebbe ridere di me, chiamarmi patetica, ma preferisco il mio silenzio alla sua voce assordante.
Preferisco il vuoto della solitudine alla farsa di una relazione che mi spezza. È un vuoto che riempirò, piano piano, con la mia verità, con il coraggio di essere quella che sono, imperfetta, sì, ma finalmente mia.
Amare significa non lasciare che l’amore diventi il luogo dove perdersi, ma un terreno dove finalmente ci si trova.
E per questo, Pietro, non ho più spazio per te nella mia vita. Non perché ti odi, ma perché non posso più odiarmi.
(A. Battantier, Memorie di un amore, Mip Lab, Alice, 2024)
#memoriediunamore
#MIPLab