Ci sono giorni, nel cuore d'autunno, in cui il ricordo del vento di trent’anni fa mi accarezza come farebbe una mano conosciuta. E ritorni, sempre così, una mano che tocca appena, sfiorando. Che non prende, ma trattiene.
Avevi vent’anni e il mondo sembrava essere tuo, anche se non lo sapevi ancora. C’era qualcosa nei tuoi gesti, nei tuoi movimenti morbidi e pigri, come se vivessi immerso in un tempo che non ci apparteneva, un tempo solo tuo.
Ti guardavo con un misto di invidia e riverenza, come si guarda chi ha capito tutto senza neanche rendersene conto.
La tua risata era la cosa più libera che avessi mai sentito. Piena, scomposta, senza riguardi. Una risata che non chiedeva permesso e che faceva tremare l’aria, un temporale d’estate.
Eravamo sempre distesi, ovunque. Sul letto sfatto nella tua stanza disordinata, sull’erba umida di un parco che non aveva un nome.
Ricordi quando ci infilavamo sotto il portico della vecchia stazione? C’era odore di ferro e di pioggia, e tu dicevi che era il profumo del futuro. Boh! Chi ti capiva? Ma io t'amavo.
Mi stringevi forte e io ridevo, chiedendomi quale futuro vedessi in quel posto dimenticato.
Le tue mani lunghe e ossute, sempre in movimento. Non sapevi mai dove metterle, come se ti imbarazzassero.
Eppure erano perfette. Le dita affusolate, quasi nervose, come se ogni vena, ogni tendine raccontasse una storia.
A volte restavo a guardarle mentre dormivi, appena socchiuse, poggiate sul cuscino come se stessero accarezzando un sogno.
C’era qualcosa di tenero e crudele in quelle mani. Erano la promessa di un mondo che non avremmo mai raggiunto.
Mi accarezzavi il viso, ma era il modo in cui lo facevi che mi lasciava senza fiato. Non c’era fretta, solo attenzione.
Come se ogni tocco fosse una dichiarazione di appartenenza.
Ricordo una sera, in particolare. La luce gialla di un lampione filtrava attraverso la finestra e tu eri lì, sdraiato sul pavimento, con un libro aperto sul petto. Ed io, stupida, non riuscivo a smettere di guardarti.
“Stai pensando troppo”, avevi detto senza nemmeno aprire gli occhi.
“E tu troppo poco”, ti avevo risposto ridendo.
Ma la verità è che eri tu quello che pensava troppo, anche se non lo davi a vedere.
C’era una malinconia in te che non sapevo spiegare.
Trent’anni. E il mondo ha continuato a girare. Io ho imparato a convivere con la tua assenza, ma ci sono notti in cui ti sento ancora. Notti in cui la tua risata risuona nelle stanze vuote e il tocco delle tue mani si fa reale. Non mi spaventa, è come tornare a casa.
A volte penso che sia stata proprio la tua ingenuità a salvarti. Quella tua capacità di vedere il mondo con occhi nuovi, di trovare bellezza anche nelle cose più banali.
Te ne sei andato così presto. Mi manchi, lo sai? Non passa giorno senza che io ripensi a quella tua mano. A come mi sfiorava il polso, leggera, quasi timida. Eppure piena di forza. Piena di vita.
(A. Battantier, 2007, Mip Lab, Memorie di un amore, Anay)
#memoriediunamore
#MIPLab
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La scultura nella foto è un dettaglio del “David” di Michelangelo, che rappresenta una mano poderosa, tesa ma rilassata, intrisa di forza e umanità.