La sera lo aveva colto di sorpresa questa volta. Scivolava sotto pelle il freddo, non si levava dalle ossa, un’infiltrazione maligna.
Addosso aveva un misto di fango, acqua e gelo, gli idranti della polizia avevano fatto il loro dovere per scacciare i barboni dalle stazioni, e i suoi pochi strati di vestiti sembravano umido straccio incollato alla carne.
Attorno a lui, il buio della città non faceva che amplificare ogni piccola luce lontana, come se volesse torturarlo con miraggi di calore.
Le persone passavano, ombre svelte, schive, ridotte a piedi e cappotti senza volti. Nessuno si voltava. Tutti affrettavano il passo, incuranti di quella figura accasciata e tremante sotto un lampione.
Dicevamo, la stazione. Il suo solito ricovero di cartone (ma almeno al chiuso) era stato distrutto. Avevano tirato fuori gli idranti, l’acqua gelata schizzava sotto la spinta del getto, creando rivoli di arterie ghiacciate.
Avevano costretto i senzatetto a sparpagliarsi, spazzandoli via come foglie dai marciapiedi.
Lui aveva sentito il freddo di quel getto e poi il gelo dell’aria, che subito faceva cristalli sulla pelle.
Sapeva che quella notte il gelo non era una minaccia, ma una promessa.
Camminava, i passi incerti, ogni passo un dolore in più.
Forse era meglio lasciarsi andare come una cosa persa.
Era una specie di pensiero dolce, l’unico gentile che gli fosse venuto in mente in tutta la sera.
Poi, all’angolo di una strada, tra il rumore metallico di un cassonetto e il vento, un bagliore giallo attirò il suo sguardo.
Un contenitore per i vestiti usati. Quel gigante giallo, pesante, saldamente piantato sul cemento, se ne stava lì, taciturno guardiano della notte.
Ma lui vide una specie di ventre caldo e morbido, un nido, una casa.
Con mani tremanti e il corpo di piombo, si avvicinò, valutò il peso del coperchio e, con disperata agilità, fece leva, sollevò, si piegò come un contorsionista e…via, dentro.
Cadde silenzioso, immerso nel buio. Lì sotto, nessuna luce, ma intorno a lui… calore.
Il suo respiro, dopo mesi di stanchezza, si fece più lieve. I vestiti, accumulati come una montagna soffice e compatta, lo avvolgevano.
Era precipitato in un mare denso e senza fondo, un grembo oscuro.
Si tolse i vestiti bagnati con dita intorpidite e li lasciò andare, scivolarono via da lui come pelle vecchia.
Frugando al buio trovò, incredibilmente, capi di lana morbida, asciutti, caldi. Come se quella notte gli avesse voluto fare un regalo, come se, per una volta, il mondo avesse deciso di nasconderlo e riscaldarlo. Si avvolse nel tepore dei nuovi strati, uno dopo l’altro.
Poi, in un angolo, la mano trovò qualcosa di inaspettato, una strana morbidezza più compatta: un sacco a pelo. Senza pensarci troppo, ci si infilò dentro, accoccolandosi, serrando gli occhi.
La stoffa, la lana, il tessuto vecchio e morbido lo accolsero come non lo aveva mai fatto nessuno (forse sua madre, ma era passato così tanto tempo).
La città rimase fuori, lontana, dimenticata. Sospeso in quel buio ovattato, in quel silenzio che aveva l’odore dolce di cose consumate e abbandonate, lasciò che il sonno lo prendesse.
Aveva caldo, finalmente.
Un caldo come quello che ricordava da bambino, ma che in quel momento era reale, tangibile, proprio lì.
Quando si svegliò, era l’alba. Un silenzio candido, quasi irreale, avvolgeva tutto.
Sporse la testa, e fuori c’era un paesaggio immacolato. Aveva nevicato. La neve copriva ogni cosa, ammorbidiva anche i contorni della città, soffocava i rumori, rendeva tutto più gentile, almeno per qualche ora.
Lui si lasciò scivolare fuori dal contenitore. I nuovi vestiti lo proteggevano come un’armatura.
Si sentiva incredibilmente leggero, e per la prima volta da tempo il pensiero di andare avanti non gli pesava.
La neve sotto i piedi scricchiolava piano, e in quel suono sentì quasi parole, qualcosa che assomigliava a una promessa, a una speranza piccola. Ti amo, ti amo, ti amo, ti amo. Quella notte aveva trovato un rifugio e adesso sentiva parlare la neve. Ti amo, diceva.
(A. Battantier, Memorie di un amore, Mip Lab, 11/2024. Art by Stephen Stadif)
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