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"VIETATO L’USO DEI SOCIAL SOTTO I 16 ANNI": UNA RIFLESSIONE TRA L’ASSURDO E IL NECESSARIO

Se in un mondo parallelo George Orwell e Franz Kafka si fossero messi a scrivere un manifesto politico contro i social media, probabilmente il risultato sarebbe simile al recente provvedimento australiano: dal 2025, chi ha meno di 16 anni non potrà più accedere ai social network. 

La decisione, che promette di essere storica secondo il primo ministro Anthony Albanese, nasce dal desiderio di proteggere i giovani dagli effetti nefasti di piattaforme ormai percepite più come strumenti di manipolazione che di comunicazione.

Ma guardiamo oltre la superficie. Se il linguaggio dei social è diventato il nuovo dialetto globale, cosa significa escludere un’intera fascia d’età? 

In termini di socializzazione, l’equivalente sarebbe impedire agli adolescenti di partecipare alle piazze pubbliche del XXI secolo, lasciandoli a bighellonare nei corridoi virtuali delle chat scolastiche.

Il divieto nasce da preoccupazioni legittime: cyberbullismo, dipendenza digitale e ideali estetici tossici hanno colonizzato le menti dei più giovani, causando danni spesso invisibili ma profondi. 

Le statistiche sull’ansia e la depressione giovanile non lasciano scampo: i social non sono solo una finestra sul mondo, ma spesso uno specchio deformante.

Epperò, c’è qualcosa di profondamente ironico nel vietare a chi è nato con uno smartphone in mano (i nativi digitali) l’accesso ai social. 

È quasi come vietare ai pesci di nuotare per proteggerli dall’acqua. 

Più che una soluzione, sembra un esperimento sociologico: cosa succede quando togliamo TikTok a una generazione che ha imparato a comunicare a colpi di video da 15 secondi?

L’approccio australiano ricorda un po’ quel genitore che, esasperato, toglie la console al figlio per fargli fare i compiti. 
Ma se il problema fosse nella console stessa? 
È vero, le piattaforme sono costruite per creare dipendenza: un flusso infinito di notifiche, like e contenuti calibrati per tenerti incollato allo schermo. 

Il governo, quindi, non sta solo cercando di proteggere i minori, ma di lanciare un messaggio alle big tech: o fate pulizia, o vi portiamo via il giocattolo.

Questa mossa potrebbe aprire scenari interessanti. Verranno creati social “under 16-friendly”? 
I ragazzi torneranno ai blog? 
O, più probabilmente, si troveranno nuove scorciatoie digitali, perché la gioventù, si sa, è l’età della ribellione, e nessuna legge ha mai fermato un adolescente motivato a farsi sentire.

Insomma, a mio avviso, la domanda non è tanto se sia giusto o sbagliato vietare i social ai minori di 16 anni, ma se siamo pronti a convivere con le conseguenze. 

Una società che vieta invece di educare è una società che non si fida dei propri cittadini, giovani o meno.

L’Australia ha scelto di tracciare una linea. Sarà interessante vedere se il resto del mondo la seguirà o se, come spesso accade, troverà un modo per aggirarla. 

Dopo tutto, il vero problema non sono i social, ma come li usiamo.


(A. Battantier, Memorie di un adolescente, Mip Lab, 11/24, Massimiliano, Valerio, Flavio)

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