Aureliano fissa il parquet segnato dalle suole, solcato dai tacchi, immaginando in quel disordine tutto il contrario: un ritmo segreto, nascosto sotto la patina opaca del tempo.
La pista è vuota, fuori orario; Sibilla ha appena finito una lezione, mentre lui si aggira intorno alle sedie, con le mani nelle tasche.
"Allora?" gli chiede lei, alzando gli occhi da una delle sue borse interrompendo per un attimo di cercare qualcosa con ostinazione.
Aureliano stringe le spalle, e fa una domanda che non ha mai formulato prima, nemmeno nella sua testa: "Vuoi insegnarmi a ballare?"
Sibilla lo guarda, e in quegli occhi vede tutto quello che lui non è. Si sente già fuori tempo, fuori tempo massimo.
La faccia di lei si distende in un mezzo sorriso che non raggiunge gli occhi.
"Non sei tipo, Aureliano. Ci abbiamo messo anni a imparare a stare insieme senza dover fare per forza le stesse cose. Cosa ti prende ora?"
Lui si gratta la testa, un gesto infantile e ostinato, e per un attimo sorride, quasi divertito dalla sua stessa richiesta.
"Non lo so. Forse voglio vederti. Come ti vedono gli altri. Tutti quelli che, quando parli di ballo, ti brillano gli occhi solo a sentirti. O almeno… qualcosa del genere."
Sibilla resta in silenzio. Non ha pazienza per certi sentimentalismi, la pazienza l'ha bruciata nelle serate a parlare con lui fino a tardi, con lui che ha sempre qualcosa da finire, un pensiero da spezzare e lasciare lì, come un attrezzo nel suo laboratorio. Le sue mani sanno il legno, le finiture sottili, eppure si muovono senza disegno, senza grazia.
"Il ballo non fa miracoli, lo sai?"
Ma quella sera, quando torna a casa, si ritrova a pensare alla sua faccia di prima. A quegli occhi che sembravano di colpo i suoi di una volta, quando avevano quarant’anni e non riuscivano a stare fermi.
Forse è colpa di quegli occhi, che ha lasciato indietro senza rendersene conto. Forse sono ancora lì, in qualche modo, e adesso lui li rivuole.
Passano settimane prima che il tempo e la loro vita riprendano a scorrere normalmente.
Fino a quando Sibilla si volta verso Aureliano, una domenica pomeriggio, mentre lui lima un vecchio comodino, e gli dice:
“Allora, ci proviamo?”
Per la prima volta da chissà quanto tempo, Aureliano non ha niente da dire.
La sala è piccola, troppo per i corsi che Sibilla tiene ormai solo per studenti abituali. Non c'è nessun altro oggi, nessuno a fare da spettatore al loro goffo tentativo.
Lei lo mette in posizione con la cautela di un chirurgo, le mani ferme, distanti, quasi fosse un pezzo da restauro.
Le prime lezioni sono un campo di battaglia. Lui inciampa, sbaglia tempo, frena troppo presto, si aggrappa come una stampella.
Un giorno, per sbaglio, le pesta un piede, e Sibilla sbotta: “Non sai ascoltare. Ballare è un dialogo, un dialogo silenzioso, e tu… tu non ascolti!”
Ma le settimane diventano mesi, e mentre lui inciampa, torna e riprova, anche lei cambia.
Inizia a trovare una sua misura per insegnare a lui, che non ha mai voluto altro che toccare il legno, vederlo prendere forma.
“Dobbiamo lasciarci spazio,” dice un giorno. “Non siamo più ventenni. Ballare non è abbracciarsi e basta, è cercarsi senza annullarsi.”
Passano i mesi, gli anni, e lui inizia a capire il ritmo, a non averne più paura, a lasciarsi andare. E in quella lentezza, in quel trascinarsi sui passi misurati, Sibilla lo vede cambiare. Non è mai stato un bravo ballerino, no, ma questo lo aveva capito fin dall'inizio.
Non diventerà mai un ballerino, e nemmeno lui ormai ci spera. Ma la prima volta che accenna un passo senza guardarla, che sente la musica prima di sentirla, capisce che qualcosa è successo, che c’è una verità nascosta tra i loro corpi stanchi.
"Non è più solo ballare, vero?" chiede una sera, mentre tornano a casa, le braccia ancora stanche e i muscoli indolenziti. La guarda con la sua faccia semplice, scavata da solchi e rughe, e la sua espressione incerta, come se lei fosse la sua insegnante e lui non altro che un allievo ostinato.
"No," risponde lei, senza esitazione. "È quello che c’è in mezzo."
Negli anni, il loro ballo rimane imperfetto, strappato e pieno di pause.
Ma ormai i passi contano meno di quella bolla di silenzio che si crea ogni volta che lui la guarda, ogni volta che lei lo guida.
Ogni tanto, uno sguardo sfugge. È lui che si sbaglia, che scivola ancora. Ma non si scusa più, non evita più di sbagliare, perché anche quella fragilità fa parte del loro ritmo.
Ora hanno circa 70 anni, due corpi hanno imparato il loro limite, e la bellezza di lasciarsi andare senza temere di non arrivare.
(Andrea Battantier, Memorie di un amore 11/24. Art by Stephen Stadif)
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